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Intervista a Enrico Coiera, Director Centre for Health Informatics, Australian Institute of Health Innovation, University of New South Wales, Sydney (Australia), autore di un recente editoriale sul tema, pubblicato dal British Medica Journal
In quali principali aree della sanità i social media hanno già dimostrato di essere utili?
Gli ambiti in cui il social web trova già applicazione con buoni risultati sono diversi: dalla misurazione della qualità e della sicurezza dell’assistenza sanitaria alle emergenze; dalla salute pubblica e promozione della salute al disease management.
E la ricerca clinica?
I social media stanno già iniziando a trasformare il modo con cui conduciamo la ricerca e ne trasferiamo i risultati alla pratica assistenziale. Possono aiutare a identificare le persone candidate ad essere arruolate nelle sperimentazioni cliniche così come – ed è un aspetto ancora più interessante – possono darci la possibilità di coinvolgere i cittadini come veri collaboratori del lavoro di ricerca. I grandi siti come Facebook e Twitter contribuiscono alla sorveglianza delle malattie, al punto che Twitter è ormai un canale prezioso per diffondere informazioni nel corso di pandemie e uno strumento di analisi in tempo reale della distribuzione e diffusione delle patologie.
Ritiene che i modelli secondo i quali il social web è usato dai clinici, dagli epidemiologi o dalle infermiere siano studiati in modo adeguato dalla comunità scientifica?
Non mi sembra; come spiego nella mia Analysis pubblicata recentemente sul BMJ, i modi con cui i professionisti sanitari usano il social web restano approfonditi in maniera superficiale. Attualmente, il focus in sanità è sull’uso dei social media come supporto della pratica clinica e per coinvolgere le persone malate. In realtà, un’opportunità molto più importante è quella che ci verrebbe dall’uso del social web per affrontare le malattie più costose, dannose e complesse dei nostri tempi.
Perché lei ritiene che possano avere, però, un ruolo ancora più importante?
Nell’articolo sul BMJ ho tracciato un quadro della crescita delle riflessioni sui social network e ho descritto numerosi degli utilizzi che oggi vengono fatti del social web. Nell’articolo, cerco di descrivere come il nostro modo di conoscere questi strumenti potrebbe essere governato per trattare quelle che ho definito le “socially shapen diseases”, così da permettere di gestire in maniera migliore problemi sanitari quali l’obesità, la depressione, il diabete e le malattie cardiovascolari. Per queste malattie, che prendono forma socialmente, i social media potrebbero essere sfruttati per intervenire direttamente in una fase precoce del divenire della patologia, accelerando quella che qualcuno chiama la network medicine. Gli interventi in rete sono l’uso mirato dei social network per influenzare positivamente i comportamenti.
Secondo lei, la popolarità crescente del social web può essere messa in relazione con iniziative come la campagna AllTrials per la trasparenza dei dati della ricerca lanciata da Ben Goldacre o la petizione Open Data promossa dal BMJ?
Man mano che cresce la pressione per rendere pubblici i dati degli studi clinici, il modello sociale collaborativo su web è destinato a cambiare il modo attraverso il quale i ricercatori collaborano tra loro e con i cittadini. Oggi, chi fa ricerca raccoglie i dati, li analizza e pubblica i risultati ma i dati restano dietro le quinte accademiche o industriali. Nel modello sociale collaborativo, i dati della ricerca sono archiviati in banche dati aperte, probabilmente finanziate da denaro pubblico, alle quali anche altri possono accedere e analizzare nuovamente i dati o riesaminarli per dare risposta a domande diverse. La comunità può formulare quesiti di ricerca, suggerire analisi e interpretare i risultati.

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