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Ci risiamo: nuova stagione, nuova campagna globale di pubbliche relazioni.

Nel decimo anno dalle vicende della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, il colosso mondiale dell’estrazione di petrolio BP – British Petroleum torna a guadagnare spazio sui mass-media con una raffinata operazione finalizzata a tentare di riconquistare la benevolenza dell’opinione pubblica.

Procediamo per passi, richiamando qualche dettaglio del disastro ambientale marittimo più tragico di tutti i tempi.

Il 22 aprile 2010, mentre la piattaforma stava completando la perforazione del pozzo Macondo al largo della Louisiana, nel Golfo del Messico, un’esplosione innescò un violentissimo incendio, che uccise all’istante 11 operai, causando diverse decine di feriti. L’incidente, da ciò che emerse dagli atti del processo, venne causato da evidenti negligenze da parte del personale incaricato della sorveglianza dell’impianto, nonché dalla mancata sostituzione di un pezzo meccanico usurato del valore di poche centinaia di migliaia di euro.

Tutti i tentativi di bloccare la fuoriuscita di “marea nera” fallirono, e lo sversamento di petrolio greggio in mare supero le 700.000 tonnellate: BP riuscì ad arginare il problema solo dopo 3 lunghi mesi. Co-responsabile del disastro, fu la multinazionale americana Halliburton, gruppo statunitense che opera in 120 paesi, specializzato nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, strettamente legato a Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti.

Gli effetti negativi sull’ambiente, sulla fauna e la flora marina, sono stati dichiarati “incalcolabili”. Ma anche per l’uomo vi sono – e vi saranno – conseguenze: intensificazione delle malattie respiratorie e delle patologie della pelle, e soprattutto aumento dell’incidenza di tumori e aumenti statistici degli aborti spontanei, a causa del petrolio e delle sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro, che contamineranno la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria e orale, soprattutto come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare.

Nel 2012, durante il processo, la BP raggiunse un accordo con il dipartimento di Giustizia statunitense per il pagamento di una penale di 4,5 miliardi di dollari, dichiarandosi colpevole di undici capi d’accusa, per negligenza e colpa grave. Il 2 luglio 2015, inoltre, gli Stati americani colpiti dal disastro hanno raggiunto un accordo con la BP riguardo ai danni ambientali provocati dall’incidente, a seguito del quale la BP dovrà risarcire circa 18,7 miliardi di dollari nell’arco di 18 anni.

Tra l’altro, alcune documentazioni video hanno confermato che alcune spiagge inquinate dal petrolio non erano state ripulite come promesso dalla BP durante i processi, bensì solamente ricoperte con sabbia pulita al fine di nascondere l’inquinamento. BP, infine, durante il procedimento giudiziario si è dichiarata colpevole del capo d’accusa di “ostruzione al Congresso”, a seguito delle evidenti reticenze di suoi alti dirigenti nel collaborare con trasparenza alle indagini. La Halliburton, infine, co-imputata con la BP, ha anche ammesso di aver “intenzionalmente distrutto delle prove chiave dopo il disastro”.

Come aziende del genere possano pretendere di restare sul mercato, incuranti del pregiudizio arrecato al rapporto di figucia con gli stakolder, resta per me un mistero.

Interessante ricordare come qualche anno prima del disastro, la BP modificò il proprio pay-off rinominandolo in “Beyond Petroleum”, ovvero “al di là del petrolio”, facendo anche un rebranding del suo famoso “scudo verde”, modificandolo nel simbolo dell’elio, una specie di margherita con dei raggi verdi e gialli, per enfatizzare il focus aziendale sull’ambiente e sulle fonti di energia rinnovabili.

La società, nel decennio tra il 2000 e il 2010, fu molto attiva sul fronte della responsabilità sociale, partecipando a diversi concorsi e venendo anche ben classificata in ranking internazionali importanti sul fronte ambientale. Per contro, il risultato delle varie commissioni d’inchiesta sul caso fu unanime: alla base del disastro, c’è stato il malfunzionamento di un sistema di sicurezza di un impianto del tutto inadeguato, malfunzionamento causato da una strategia di sistematica e miope riduzione dei costi.

Siamo quindi dinnanzi ad aziende “Giano bifronte”, che da un lato si danno pitturate di verde per apparire sostenibili agli occhi dei cittadini, nel tentativo, spesso fragile, di ridurre i rischi per il loro business, e dall’altro perseguono invece senza sosta business ben poco sostenibili per il futuro del pianeta, a volte pregiudicando la sopravvivenza di interi ecosistemi.

È appena utile ricordare ad azionisti e manager il fortissimo pregiudizio sul valore di borsa dell’azienda generato da questi comportamenti: è difficile farsi una ragione dell’arroganza e supponenza di un sistema industriale “a doppio binario”, che da un lato massimizza in modo sfacciato l’impatto pubblicitario delle proprie politiche “green” ed ecosostenibili, e dall’altro – contemporaneamente e schizofrenicamente – per risparmiare misere somme di denaro causa danni incalcolabili di lungo periodo all’ecosistema e all’uomo. 

Tornando all’attualità, sul sito della BP dedicato alla responsabilità sociale si legge tuttora che l’azienda “lavora per evitare, mitigare e minimizzare gli impatti ambientali in tutti gli scenari in cui opera”. Ebbene, approfondiamo come.

In un articolo per la London Review of Books, Meehan Crist, ricercatore in scienze biologiche alla Columbia University, racconta appunto della nuova campagna di relazioni pubbliche lanciata dalla BP a livello globale, lanciata al fine di mettere in risalto l’impegno del gruppo sul tema delle energie rinnovabili e per un “futuro più verde e pulito”. Lo sforzo pubblicitario di BP si inserisce nella più ampia azione di propaganda dell’American Petroleum Institute, che riunisce oltre 600 aziende nel settore del mondo degli idrocarburi, e che ha lanciato “Energy for Progress”, un imponente programma che ha come scopo – riporta Crist – “convincere l’opinione pubblica che l’industria dei combustibili fossili, dopo aver per decenni speso miliardi di dollari in azioni di lobbismo e disinformazione per disincentivare uno sforzo orientato alla tutela del clima, ora è un partner affidabile nella lotta al cambiamento climatico”.

Limitandosi all’apparenza, parrebbe che l’industria petroliferia stia investendo massicciamente un soluzioni green al fine di cambiare il proprio modello di business: non è così, se consideriamo, analizzando i bilanci pubblici della BP, che l’azienda – player di sicuro riferimento nel settore – investe nel comparto delle tecnologie rinnovabili appena il 3% dei propri investimenti in ricerca e sviluppo; ed è peraltro un’azienda apparentemente “virtuosa”, se consideriamo che dall’analisi pubblicata a gennaio dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, la media del comparto di ferma a un misero 1%.

Il problema pare essere l’impossibilità di rendere “redditizi” questi progetti green. Non più tardi di 2 anni fa, l’allora CEO di BP Bob Dudley, dichiarò: “Se qualcuno ci dicesse, ecco 10 miliardi di dollari, investiteli nella produzione di energia verde, noi non siamo sicuri di poter riuscire a farlo”. L’interesse degli azionisti è centrale nella vecchia ed obsoleta filosofia “shareholder value”, ed è quindi ancor oggi l’ossessione dei top manager delle multinazionali che operano in settori maturi quali quello petrolifero. La Crist nel suo articolo afferma: “Se l’interesse degli azionisti, ovvero massimizazre il profitto, entra in conflitto con il bene comune, il profitto vince sempre. Il problema non è solo la BP, ma è strutturale: la BP è legalmente obbligata ad agire nell’interesse degli azionisti”

In questo, non sono d’accordo con la Crist, e con me buona parte del mondo accademico più attento agli sviluppi culturali – e anche giuridici e giurisprudenziali – nel settore della corporate social responsibility e del reputation management.

Le opportunità di una maggiore crescita di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento di preoccupazioni sociali e ambientali come parte integrante della strategie di business di un’azienda, è confermato da una crescente mole di evidenze scientifiche, incluso il celebre lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim, del quale avevo parlato in un mio precedente articolo: fare bene, e fare del bene, acquisendo consapevolezza sul ruolo sociale delle industrie all’interno delle reti sociali, in poche parole fa guadagnare di più. Tanto che gli obblighi giuridici di redditività “a qualunque costo” verso gli azionisti, sottolineati da alcune sentenze in USA negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, sono stati poi rivisti e attenuati da sentenze successive, che hanno tenuto conto e inserito nei loro ragionamenti anche più ampi concetti quali quelli relativi alla stakeholder value, ovvero alla necessità di contemperare con equilibrio gli interessi di tutti i pubblici dell’azienda, e non solo degli azionisti, lavorando per la creazione di un reale valore condiviso tra tutti gli stakeholder.

Come sottolineato da Michael Porter, quando gli investitori ignorano le proprie responsabilità sociali e falliscono nel riconoscere la forte connessione che esiste tra la strategia aziendale, lo scopo sociale e il ritorno finanziario, “essi mettono implicitamente in discussione il ruolo del capitalismo come strumento utile per il progresso della società: in un particolare periodo storico nel quale l’ineguaglianza economica è aumentata e i bisogni sociali sono più evidenti che mai, ignorare la possibile sinergia tra il successo aziendale e il progresso sociale incoraggia le critiche e mette a rischio il futuro stesso del capitalismo”.

A ciò aggiungo che gli stessi grandi investitori – ad esempio l’enorme fondo di investimento Blackrock – richiamano all’ordine le aziende, chiedendo espressamente di farsi carico di queste preoccupazioni, pena il disimpegno dei fondi stessi dalla compagine azionaria.

Per non poche multinazionali, tuttavia, questa consapevolezza è ancora tutta da raggiungere. Vi è tuttavia un rilievo della Crist totalmente condivisibile: quello che pone l’attenzione sull’accusa degli ambientalisti, secondo i quali le aziende del settore petrolifero spendono milioni di dollari ogni anno per costose campagne di pubbliche relazioni finalizzate ad alterare la percezione che l’opinione pubblica ha del loro operato.

La ONG ClientHearth ha citato in giudizio proprio la BP, sostenendo che le sue campagne pubblicitarie e di propaganda siano una “cortina fumogena”: un vero e proprio bombardamento di messaggi finalizzati a convincere la cittadinanza che in combustibili fossili, in quanto necessari al progresso, sono in definitiva una cosa positiva.

Ad esempio, attraverso la diffusione di campagne atte a sensibilizzare il pubblico sull’importanza dell’impronta ecologica individuale, quasi a voler dire: “Siete voi che inquinate, con i vostri comportamenti quotidiani, non noi…”.

Ricordo a tal proposito una mia visita, un paio d’anni fa, al bellissimo Maritime Museum di Rotterdam, in Olanda, il museo del mare il cui percorso espositivo si conclude con una serie di laboratori didattici ed esperienziali proprio sui consumi individuali e familiari, e su come abbatterli: lodevole azione di sensibilizzazione, che avrebbe ancor più senso fosse promossa dalla locale Università, invece che finanziata dall’associazione olandese dei produttori di idrocarburi, della quale la BP è azienda di punta, e da varie aziende produttrici di infrastrutture petrolifere, come risulta se solo si ha la pazienza di scorrere l’elenco delle sponsorship.

Il confine tra la sensibilizzazione del cittadino su temi importanti e di sicuro interesse, e per contro il tentativo di spostare sugli utenti finali le responsbilità per le problematiche derivanti dal cambiamento climatico, è sottile e assai sdrucciolevole: è dal 2015 che la BP tenta di percorrere questa strada, con il supporto di importanti agenzie di pubbliche relazioni a livello globale, sgomitando per cercare di aumentare la propria “licenza di operare”, anche se le previsioni strategiche in tal senso paiono essere di molto precedenti.

È dalla fine degli anni ’90 che le aziende petrolifere immaginano strategie di questo tipo. In un report dal titolo “Scenari di gruppo 1998-2020”, la multinazionale petrolifera Shell immaginava infatti questo scenario: “In seguito agli sconvolgimenti climatici, una coalizione di ONG ambientaliste promuove un’azione legale collettiva contro il governo Statunitense e i produttori di idrocarburi, con l’accusa di aver ignorato quello che gli scienziati dicono da anni: che bisogna fare qualcosa. Si diffonde la reazione sociale all’uso dei combustibili fossili, e gli individui diventano vigilanti ambientali, proprio come una generazione prima erano diventati acerrimi nemici del tabacco. Aumentano le campagne di azione diretta contro le aziende, e i giovani consumatori, in particolare, esigono che si agisca”. Sempre secondo questo documento Shell, “la reputazione è la chiave del successo”: le compagnie petrolifere devono reagire al cambiamento climatico convincendo le persone che esse “stanno rendendo un mondo migliore, diffondendo il capitalismo di mercato e (…) plasmando le problematiche ambientali ovunque si trovino

Metodo assai curioso di porre al centro l’importanza – indiscutibile – della reputazione, rimuovendo in toto uno dei pilastri fondamentali del reputation management che è quello dell’autenticità: come scrive la giornalista esperta in temi ambientali Emily Atkin, “non solo sapevano degli enormi danni provocati dal loro modello di business alla vita sulla Terra, ma sapevano anche, da decenni, in che modo i danni causati dai loro prodotti potevano cambiare il panorama politico legale e culturale”. Non sono spaventati, avverte la Atkin: “Sono pronti”.

Mentre tutto ciò accade, qualcuno coraggiosamente tenta di resistere, non solo con proclami ma con gesti concreti: il celebre quotidiano britannico The Guardian, ha rinunciato ad ogni pubblicità pagata da compagne del mondo dei combustibili fossili.

Benvenuti nel decennio della propaganda 2.0: spregiudicata e alterante, come è sempre stata, ma oggi ancor più disorientante, perché sempre più “tinta di verde”, lupo omicida travestito, abilmente, da agnello amico dell’ambiente.


Bibliografia/sitografia

(selezione bibliografica a cura della Dott. sa Giorgia Grandoni):

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