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Redesign Thinking per l’impresa

Nella rete è indispensabile pensare nella ogica di design. Al centro i bisogni del cliente

“In un mondo esponenziale, gli imprenditori che vogliono riuscire devono pensare come ribelli”. Parola di Patrick van der Pijl, CEO di Geo Business Models  Inc. e recentemente a Milano per il Sincularity Summit, dove ha presentato il suo bestseller “Design a better business” (in uscita per Franco Angeli) che raccoglie le esperienze di trenta leader nel business e nel design. Il titolo è giustamente rimasto in inglese in tutte le 12 lingue nel quale è stato pubblicato perchè “design” mal si traduce ed è spesso più facilmente associato ai prodotti che ai modelli di business e idee imprenditoriali.
“Design è una parola strana perchè è un sostantivo ma anche un verdo e un aggettivo – osserva questo 44enne olandese formatosi nelle business school, ma da tempo a suo agio tra i pennarelli, le lavagne e i canvas tipici dei designer – e possiamo usarla per descrivere il processo che sta dietro la produzione di esperienze come il Cirque du Soleil o la riprogettazione di un business alimentare”.
In realtà questa flessibilità è un riflesso del mondo digitale: “Nel mondo lineare, privo delle interconnessioni create dal digitale l’execution era tutto, e per scalare un business era necessario diventare una grande azienda – spiega Van Der Pijl – ma la rete ha cambiato tutto perchèabbattendo le barriere ha ampliato la competizione e rimesso al centro il consumatore. É per questo che oggi chi fa impresa, sia in una multinazionale o in una piccola media impresa, ha bisogno di strumenti di “design-thinking” per sfruttare gli effetti della coda lunga generata dalla frammentazione dei mercati”. Questa transizione non è sempre stata facile perchè i consigli di amministrazione, abituati a voluminosi piani industriali, possono trovarsi spiazzati da un piano di sviluppo composto da pochi fogli e da uno scenario schizzato su una sola pagina. Eppure, complice la crisi, l’elenco delle aziende e dei manager che si sono convertiti a questa nuova scuolasi sta allargando. Un esempio è quello di Ing Bank, dove qulche anno fa la Vp Strategy, Dorothy Hill, ha applicato le metodologie di design thinking per trasformare il piano di 250 pagine in una “strategia della pagina” collegando scopo e vison fornendo a tutti i dipendenti della banca una direzione chiara e immediatamente interpretabile.
La semplicità delle metodologie del design applicate all’impresa è in realtà basata su meccanismi molto sofisticati e affinati in decenni di lavoro da specialisti come David Sibbet, fondatore di The Grove Consultants International oltre che inventore di diversi strumenti grafici di progettazione condivisa.
Sibbet, per esempio, ha dimostrato fin dagli anni ’70 che annotare su grandi fogli le parole e i concetti più importanti durante una riunione, ne attesta l’ascolto e riduce le ripetizioni nei discorsi, sostenendo il pensiero di una visione di insieme e una memoria di gruppo.
Un punto centrale del Design Thinking è la centralità dei bisogni del proprio cliente, che non deve essere ideale, ma una persona in carne ed ossa. É infatti partendo dalle conversazioni con i propri clienti che Aart J. Ros, CEO di Auping, leader olandese nella produzione di letti, ha riprogettato tutta la comunicazione del prodotto sui benefici del sonno invece che sulle caratteristiche del proprio prodotto. Una volta individuati i bisogni bisogna però produrre un prototipo ed è in questa fase che entra in gioco il “maker mindset” utile a prototipare, anche in scala e spesso con l’ausilio di Lego o Playmobil, come dovrebbe funzionare un nuovo business, che si tratti di un jet privato o di una sala conferenze.
Viene però da chiedersi se questo tipo di approccio sia applicabile a qualsiasi taglia di azienda. “Certamente – osserva van del Pijl – ma in modo diverso. Una start-up è molto flessibile e può utilizzare questo approccio per mettere a punto il proprio modello di business, come avviene per esempio anche qui in Italia nell’incubatore di impresa di Bergamo Sviluppo, mentre una grande azienda fa spesso ricorso a consulenti specializzati, ma anche una piccola o media azienda ne trae utilità. In Olanda, per esempio, abbiamo aiutato una macelleria ala periferia di Amsterdam a crescere puntando su prodotti completamente diversi per il web da quelli che rendevano celebre il proprio esercizio fisico, ma anche facendogli scoprire che per i clienti un punto di forza era la possibilità di parcheggiare e cercare una location più centrale  non aveva senso”.

 

Sviluppo agile e «design thinking»: il modello Lego funziona così

È stato Senior Innovation Director del gruppo Lego fino allo scorso marzo. È considerato, a livello internazionale, un esperto in «radical innovation» ed è riconosciuto come un «change-agent» particolarmente influente. David Gram è un personaggio di spessore, non c’è alcun dubbio, e lo prova la sua esperienza
sia di imprenditore sia di manager, dapprima nel ruolo di Head of Innovation in Scandinavian Airlines e poi nell’azienda danese dei mattoncini più famosi del mondo, dove ha diretto un team di designer, ingegneri, business developer e project manager con l’obiettivo di inventare il futuro del gioco.

Il Lego Future Lab è stata la “palestra” dove Gram ha affinato e potenziato la propria visione del modello attraverso il quale le aziende possono adeguarsi a un mercato in continua evoluzione e diventare organizzazioni «change-leading». La mentalità da startup che animava questo gruppo di lavoro è stata la base per iniziative di business radicalmente nuove, fondate sul paradigma del design thinking e sul concetto di «sviluppo agile». Iniziative che sono valse a Lego l’appellativo di «Apple dei giocattoli».

Gram ha partecipato all’ultima edizione del Technology Forum di The European House Ambrosetti, lo scorso maggio, calamitando l’attenzione di tutti i manager presenti quando è entrato nel merito dei pilastri del successo planetario di Lego. Elevatissima propensione all’innovazione radicale e coinvolgimento dell’utente finale (per farlo partecipare con le proprie idee allo sviluppo dei prodotti) sono in buona sostanza i due “mattoni” della filosofia della società scandinava. La si può definire «innovazione democratica», ma anche innovazione aperta 2.0. Gram ha provato a spiegarla partendo dal termine disruption: «È una parola di moda, ne parlano tutti. Il vero vantaggio è farla e non subirla, perché l’innovazione deve guardare al futuro rimuovendo rischi».
Tutte le aziende fanno e possono fare innovazione ma poche, questo il senso dell’incipit dell’ex manager di Lego, lo fanno in modo efficace. Ma come ha saputo fare un passo in avanti di tipo “disruptive” la casa dei mattoncini colorati, diventando uno dei marchi più popolari al mondo e superando una crisi finanziaria importante (nel 2003 la società era quasi fallita)? «Abbiamo cambiato modello – ha ricordato Gram – partendo dall’approfondita analisi dell’identità dell’azienda e della sua mission: ispirare la creatività dei bambini, i clienti del futuro. Capire il proprio Dna prima di pensare a servizi e prodotti è il presupposto chiave per fare innovazione in modo aperto, utilizzando le esperienze interne all’organizzazione e altre provenienti dall’esterno, anche non associate al prodotto fisico».
L’esperienza di sviluppo è cambiata in parallelo ai cambiamenti che hanno interessato i mercati e l’intera società. «Il ciclo di vita del prodotto – ha confermato in proposito Gram – si è accorciato e di conseguenza occorre guardare più velocemente al futuro, facendo proprie le nuove tecnologie come la mixed reality e l’intelligenza artificiale e i concetti di co-design e co-development per coinvolgere i consumatori nel processo di creazione in tempo reale. L’azienda deve restituire ai clienti il valore creato anche con il loro contributo».
Rendere efficace, oltre che efficiente, l’innovazione non è ovviamente un compito scontato. Ricerca e sviluppo e business model consolidati non bastano. Il vero valore aggiunto, almeno nel caso di Lego, sono le persone, persone che sanno guardare oltre e sviluppano progetti sulla base di visioni future e di metodologie agili. Il Future Lab guidato da Gram è questo, un mix di esperienze e competenze che convergono per accorciare i tempi di execution delle idee e arrivare in poche settimane alla realizzazione di un prototipo. Si interpretano i Big Data per capire i comportamenti futuri, si stringono partnership con aziende esterne, vendor tecnologici e anche con i venture capital che fanno da scouting per arrivare alle startup. La storia “open” di Lego, non a caso, è costellata di espressioni che suonano ormai familiari come crowdsourcing e «user driven innovation».
«Bisogna imparare ad imparare -dice Gram -, democratizzando il processo di sviluppo del prodotto, aprendolo ai consumatori e anche alle aziende che sfruttano illegalmente il marchio della tua azienda. Costruendo una comunità e diventando dei ribelli diplomatici». Il messaggio di sintesi di Gram è tanto incisivo quanto esplicito. In Lego l’hanno seguito alla lettera e il lancio della piattaforma di open innovation “Ideas”, evoluzione del progetto Cusoo lanciato in Giappone diversi anni fa, ne è l’esempio vivente. A tutto dicembre 2016 i progetti caricati online dagli utenti erano oltre 2.200, solo 15 sono diventati prodotti realizzati e venduti. Perché solo le idee veramente “disruptive” hanno successo.

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