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Un libro di Chamorro-Premuzic analizza il fenomeno del rapporto tra competenza e leadership e punta il dito sui processi di selezione: «Premiano le qualità sbagliate»

Politici impreparati. Ministri privi di un curriculum all’altezza del ruolo. Boiardi che passano con disinvoltura da un incarico all’altro, senza conoscere neppure uno dei delicatissimi settori cui di volta in volta sono preposti. Dirigenti che rendono la vita impossibile a decine e decine di loro sottoposti, ostacolandone produttività e carriera… Se il nostro giudizio non fosse offuscato dai demoni del politicamente corretto, se un velo d’ipocrita perbenismo non c’impedisse di cogliere il reale volto delle cose, non faticheremmo molto a riconoscere che è proprio questo – la presenza di tanti incompetenti in posizione di comando – il vero demone che da anni ha preso in ostaggio il futuro del nostro paese. Lo certificano i dati. In uno studio condotto nel 2011 su un campione di circa 14.000 lavoratori, «i rispondenti hanno valutato positivamente appena il 26 per cento dei loro capi». Stesso dicasi per i governi e i capi di stato: «circa il 60 per cento delle persone nel mondo ritengono che il loro paese sia sulla strada sbagliata, per colpa dei loro leader».  

Prendiamo l’Argentina. Un secolo fa «era non solo la terra delle opportunità ma anche uno dei paesi più ricchi del mondo, con un PIL pro capite più alto di quello della Francia e della Germania. Eppure da allora l’Argentina è stata in costante declino, qualificandosi come uno dei pochi paesi del mondo in permanente moto retrogrado. La ragione principale? Un cattivo leader dopo l’altro».

Se dai governi passiamo al mondo del lavoro, il quadro non cambia: lo scarso impegno, la perdita di entusiasmo generata da leader intrattabili, incapaci e pieni di sé si traducono «in una perdita di produttività annua di circa 500 miliardi di dollari». A questo bisogna aggiungere che il 75 per cento delle persone che abbandonano la propria occupazione lo fa proprio a causa dell’ansia, della frustrazione generata da superiori mediocri, arroganti che creano problemi invece di risolverli; un fenomeno, questo del turnover, che comporta anch’esso una perdita stimata tra il 10 e il 30 per cento del monte salari annuo.

Eppure, a guardarsi intorno, ce ne sarebbero di persone competenti, esperte, adatte a guidare governi, imprese e istituzioni: perché costoro siedono in panchina, mentre tanti mediocri s’issano baldanzosi in plancia di comando? La colpa, spiega Tomas Chamorro-Premuzic, professore di Business Psychology all’University College di Londra e alla Columbia University (Perché tanti uomini incompetenti diventano Leader? Egea, pp. 188, € 25), è tutta da imputare all’inadeguatezza dei processi di selezione. «Quando gli uomini vengono selezionati per occupare posizione di vertice – spiega l’esperto di talent management – gli stessi aspetti che consentirebbero di predire il loro fallimento sono comunemente scambiati per indicatori di potenziale o di talento per la leadership e, come tali, persino esaltati». Ad esempio, «caratteristiche come l’eccessiva fiducia in sé stessi e il narcisismo dovrebbero essere interpretate come segnali di pericolo. Invece, ci spingono a dire: “Ah, che tipo carismatico! Ha la stoffa del leader”».

Insomma, i nostri sistemi di selezione esaltano «le caratteristiche del maschio alfa e cioè il protagonismo rispetto all’umiltà, l’estroversione rispetto alla sobrietà, la voce grossa rispetto all’understatement, l’azzardo rispetto alla saggezza». Il problema? Queste caratteristiche, se sono utili a imporsi come leader, sono del tutto inadatte per guidare un paese, un’impresa o una comunità di persone.

Prendiamo il caso di Justine, una persona reale ma con falso nome, la cui vicenda è esemplificativamente rievocata da Chamorro-Premuzic proprio per illustrare le tante distorsioni che insidiano i nostri sistemi di selezione: «(Justine) è un’esperta contabile belga brillante e curiosa, che ha passato gli ultimi quindici anni lavorando come responsabile finanziario di una grande organizzazione non governativa. Benché si sia prodigata costantemente al di là delle aspettative e sia vista dal suo capo come uno degli elementi più preziosi del team, raramente promuove sé stessa…preferisce concentrarsi sul proprio lavoro…lasciando che i risultati parlino da soli».

Purtroppo, quella adottata da Justine, è una strategia di assai dubbia efficacia in un mondo come quello delle progressioni di carriera, le cui ruote girano completamente all’incontrario rispetto a ciò che il buon senso (e le evidenze empiriche) imporrebbero: «Justine ha visto molti dei suoi colleghi passarle davanti, anche quando non sono in gamba come lei, ma, grazie alla sicurezza di sé e alla loro assertività, trasmettono l’impressione di essere non solo più competenti, ma anche più motivati e dotati delle attitudini tipiche del leader. E poiché possono continuare a fare affidamento su persone come Justine per mandare avanti la baracca, la loro incompetenza è spesso mascherata dal contributo silenzioso ma efficace di una Justine».

La cui vicenda ci consente di chiamare in causa il primo dei false friends dei processi di selezione: la sicurezza in sé, un attributo che molto spesso i cacciatori di teste e i selezionatori associano alla competenza e al potenziale di leadership. Eppure, evidenzia Chamorro-Premuzic, tra i due attributi (sicurezza di sé e competenza) non vi è alcuna correlazione. Al contrario, centinaia di studi hanno empiricamente documentato che esiste «una sovrapposizione inferiore al 10 per cento tra quanto le persone pensano di essere intelligenti (sicurezza in sé) e i punteggi reali dei test di intelligenza (competenza)».

Tradotto: la maggior parte degli individui tende a sovrastimare i propri talenti; e paradossalmente quelli che eccellono in questa pratica (aprendosi così numerose prospettive di carriera) sono proprio gli individui meno preparati. In fondo, chi sa è consapevole della limitatezza del sapere e per questo è in grado di riconoscere i propri limiti; al contrario, chi non sa (o sa poco) ritiene di sapere tutto e per questo si culla in una sicumera del tutto disfunzionale e fuori luogo. Il problema? Stante la distorsione dei nostri processi di selezione, molto spesso accade che i capi che ostentano maggiore sicurezza (e incompetenza) siano preferiti a quelli più competenti, umili e laboriosi che, proprio a causa di questi attributi, appaiono più cauti e insicuri agli occhi dei selezionatori. In tempi non sospetti lo aveva già evidenziato Bertrand Russell: «la causa fondamentale del disastro è che nel mondo moderno gli stupidi sono arroganti e pieni di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi».

La stessa cosa vale per il carisma, altro falso amico dei procacciatori di talenti. In molti pensano che questa caratteristica sia un ingrediente essenziale per una leadership di valore. Eppure, anche in questo caso, le evidenze empiriche ci dicono tutt’altro; ci dicono che i leader più efficaci, in politica come nel mondo delle imprese, non sono quelli più carismatici, ma quelli dotati di perseveranza e modestia, che approcciano la realtà in modo umile e sono pronti ad ammettere i propri errori.

Insomma, come Chamorro-Premuzic evidenzia a più riprese nel suo libro, «c’è un’enorme differenza tra i tratti della personalità e i comportamenti che occorrono per essere scelti come leader (sicurezza di sé, narcisismo, carisma) e i tratti e le competenze che occorrono per essere capaci di dirigere» (competenza e onestà). Ne deriva che se vogliamo far emergere dei buoni leader, cioè dei leader esperti, emotivamente stabili, consapevoli dei propri limiti e dotati di una buona dose di umiltà ed empatia, dobbiamo profondamente ripensare gli attuali criteri di selezione, poiché sono proprio quest’ultimi, per come sono oggi strutturati, a escludere, in modo del tutto distorto, tutti coloro (in particolare le donne) che invece avrebbero le caratteristiche adatte per essere un buon leader.

Ci riusciremo? Qualche dubbio è lecito nutrirlo. Spesso infatti i leader, più sono mediocri e incompetenti, più tendono a circondarsi, quando sono al potere, di persone mediocri e incompetenti; tendono, cioè, a creare un ambiente tossico, in cui la mediocrità si autoperpetua proprio «come fanno i batteri e i parassiti negli ambienti inquinati e contaminati».

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