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C’era una volta una banca considerata da analisti e esperti del settore tra le buone pratiche in termini di responsabilità sociale d’impresa. Una banca che, sul suo sito web, dichiara[va] che “i temi di sviluppo sostenibile maggiormente rilevanti per il business e per gli stakeholder sono integrati nei processi aziendali”. 
Una banca sinonimo di territorialità, in osmosi con il tessuto economico locale, volano di cultura e tradizione ai livelli più alti. Una banca dotata di tutti o quasi gli strumenti tipici in grado di dare concretezza ad una strategia di responsabilità sociale: un bilancio di sostenibilità completo e redatto secondo tutte le linee guida di riferimento, dotato del massimo livello di assurance (A+), un processo di stakeholder engagement realizzato in modo sistematico, l’adesione ai principi e ai consessi internazionali di più alto livello (Global Compact e Equator Principles, per esempio), il dialogo costante e strutturato con le associazioni dei consumatori concretizzato attraverso uno tra i più interessanti ed efficaci progetti a livello nazionale, un sistema di rating ESG (Ambiente, Società, Governance) dei fondi/sicav in offerta presso la rete, una porzione di offerta a forte contenuto di sostenibilità, una policy per la cessazione dell’operatività residuale nel settore degli armamenti, l’inclusione di principi legati al rispetto dei diritti umani nel Codice Etico e nella “Politica sulla sostenibilità nella catena degli approvvigionamenti”, un impegno globale per la lotta al riciclaggio e al terrorismo e soprattutto, una serie infinita di erogazioni liberali, sponsorizzazioni e donazioni per soggetti profit e non profit della città e più in generale del Paese, un’immissione di capitali in grado di far fiorire arte, cultura, sport, eventi, sostegno alle persone svantaggiate.  Insomma, c’era una volta una best practice di CSR nel settore finanziario italiano ed europeo.
C’era una volta. Perché quella best practice è da alcune settimane nell’occhio del ciclone. Le accuse ad alcuni rappresentanti degli ex vertici aziendali sono pesanti. Partono da presunte irregolarità nel processo di acquisizione di un’altra banca, passano per operazioni su titoli tossici, toccano ipotesi di corruzione, falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza. A ciò si aggiungono ulteriori ombre da chiarire, a partire dal ruolo giocato dall’interferenza politica nella gestione dell’omonima fondazione, che partecipa al 37,5% all’assetto azionario dell’azienda.
E dunque la domanda è: come è possibile che un’azienda dotata di processi di CSR così sviluppati, a presidio del capitale reputazionale e del valore per gli stakeholder, possa essere travolta da uno scandalo fondamentalmente di carattere “(dis)etico”? E per estensione: la CSR, classicamente intesa (e i professionisti che la governano) ha ancora un senso all’interno delle aziende o rappresenta solo il braccio buono del capitalismo, la spugnetta che lucida i comportamenti opachi?
A queste domande non siamo riusciti, qui ad Avanzi, a rispondere senza innescare una dialettica tutta interna, di cui riportiamo di seguito una sintesi. I punti di vista non sono opposti, ma esprimono sensibilità diverse.
Giovanni Pizzochero – Due riflessioni: una strategia di CSR ha senso solo se è preceduta da un’analisi approfondita di materialità in grado di definire significatività e interesse delle azioni implementate dall’impresa per i portatori di interesse. Una strategia di CSR deve essere ancorata ad un’analisi delle reali esigenze delle stakeholder, affinché l’organizzazione produca valore per essi su tematiche di reale importanza, in grado di generare valore come risposta ad un bisogno rilevabile. Astraendo, ma non troppo, dal caso Montepaschi: il compito di una banca è quello di erogare credito. La “vera” CSR pertanto deve essere connessa al processo core, alle sue declinazioni, alle sue modalità. A che serve una banca che non eroga credito a determinate categorie di popolazione, che non vigila sui propri processi di compliance, che mette a rischio il risparmio dei suoi clienti, ma stampa la propria modulistica su carta riciclata? A che serve una banca che finanzia il settore delle armi o altri settori controversi, ma elargisce donazioni a supporto di ONP impegnate in territori di guerra?
Il secondo spunto: la generazione di valore per l’impresa e per gli stakeholder deve avvenire attraverso un unico atto economico. La CSR ha senso se include un principio di contemporaneità rispetto al business. La CSR ha senso se è integrata al business, se è essa stessa business. Da fare Corporate Social Responsiility, ad essere una Socially Responsible Corporate. L’azione dell’organizzazione deve essere ad un tempo in grado di essere sostenibile per l’impresa e per la società. La teoria dei due tempi (prima faccio profitto “costi quel che costi” e poi lo redistribuisco) è vecchia ed evidentemente controproducente. A meno che non si voglia correre il rischio di ritrovarsi di fronte ad una banca (o ad una qualsiasi azienda) con una legittimità sociale solida acquistata a suon di beneficienza, spazzata via dal colpo di vento dell’inadempienza ai principi più elementari.
Come mostra l’esempio di cui sopra (solo uno dei tanti che possono essere citati), la CSR così come è stata interpretata da molti sino ad oggi mostra molte debolezze. E’ necessario aprire un dibattito, in questa fase storica, sul futuro della disciplina: ridefinire i confini della materia, osare per superare e correggere buona parte delle anomalie relative alle interpretazioni della responsabilità sociale. Creare valore economico in modalità tali da generare contemporaneamente valore per l’azienda ma anche per gli stakeholder e per i territori di riferimento. E non è solo un fatto aziendale: è soprattutto un fatto culturale che risponde ad un unico refrain, sentito mille volte, applicato raramente: integrare l’etica nel business, identificando nuove forme di economia (sociale). E quando si parla di valori etici, si parla di ricambi generazionali in quanto legati a modelli culturali. L’attuale modello di CSR non funziona in sé, o sono i suoi interpreti ad esprimerlo nel modo sbagliato?
Estremizzando, se le aziende sapranno davvero integrare nella propria cultura, nella propria missione, nei propri processi di governo questa nuova sostenibilità in grado di paragonare (o anteporre) il valore sociale al valore economico, a cosa servirà parlare ancora di CSR? A che serviranno le funzioni aziendali di CSR? A che serviranno i consulenti di CSR? A niente, perché saremo di fronte ad un nuovo modello economico, l’unica via per uscire dalla crisi.
Davide Dal Maso – La mia analisi vuole essere realistica, non ideologica. La CSR non è la soluzione ai mali del mondo – e su questo siamo tutti d’accordo. È un approccio che un’organizzazione adotta per governare se stessa. Ma questo non significa che assumerne lo spirito e utilizzarne gli strumenti, di per sé, la renda perfetta. Darsi un codice etico non vuol dire che tutte le regole in esso previste siano immediatamente e completamente rispettate. Il rispetto delle norme dipende [non solo, ma in gran parte] dall’allineamento tra il loro contenuto e il sentire dei destinatari – che in una grande azienda sono tanti e tutti portatori di una diversa cultura e di una specifica visione etica. I codici, quindi, hanno anche un obiettivo aspirazionale: dicono come devono andare le cose, ma anche come dovrebbero andare, pur sapendo che ci potrebbero essere dei fallimenti. La Costituzione della nostra Repubblica è piena di riferimenti a obiettivi irrealizzati, che tuttavia esprimono una tensione verso il miglioramento, che non va considerata né ingenua né inutile.
Tutto questo significa forse che gli scandali e gli abusi vanno accettati come un fatto ineluttabile? Ovviamente no. Però dobbiamo riconoscere la possibilità che occorrano. La possiamo ridurre, ma non eliminare. Ma è proprio per questo che, nonostante tutto, codici, politiche e pratiche di CSR sono importanti: perché richiamano continuamente l’azienda verso i principi che essa stessa ha dichiarato di voler rispettare. In altre parole, uno può anche non mantenere una promessa; ma, se non fa alcuna promessa, non ci si può nemmeno richiamare agli impegni che ha preso.
Non posso sapere, ovviamente, se i vertici di Montepaschi abbiano commesso dei reati; spetterà ad altri stabilirlo. Ma certamente hanno tradito la fiducia delle loro controparti. Dei dipendenti del gruppo, in primo luogo, dei clienti, di tutti quelli che si erano affidati loro. Anzi, arrivo a dire che è l’azienda, intesa come comunità di persone e di interessi, ad essere stata tradita. Montepaschi (e, con essa, tutte le imprese danneggiate dai propri stessi amministratori) è la vittima dell’irresponsabilità di alcuni, che hanno distrutto il senso di responsabilità di molti. Le buone pratiche di CSR di Montepaschi non erano “finte”; i rating ESG tanto positivi non erano regalati; le cose buone fatte, non poche, restano. Su questo lavoro Montepaschi dovrà ricostruirsi. Se dovesse cedere alla tentazione di smantellare i progetti e le pratiche di CSR, sotto la spinta dei tagli ai costi, allora sì dovremmo preoccuparci: dovremmo riconoscere ragione ai detrattori, a tutti quelli che sostengono che la CSR è solo fumo negli occhi, è pura comunicazione, è un abbellimento che, alla prima difficoltà, viene messo da parte. Io sono convinto, invece, che in Montepaschi si sia cercato di realizzare davvero un percorso serio di responsabilità sociale e che i risultati degli investimenti del passato, se non saranno dilapidati da scelte emergenziali, se si continuerà a coltivarli, arriveranno.

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