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L’era del purpose. Sette consumatori su dieci fanno fatica a riconoscere concretamente le aziende virtuose.ma il disorientamento potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata

«Quali sono quei nostri prodotti che possono migliorare la condizione del pianeta?». Se l’è chiesto la nuova guida mondiale di Unilever Alan Jope, succeduto quest’anno a Paul Polman.
E ha fatto il giro del mondo l’interrogativo di questo top manager scozzese, che in trent’anni ha scalato le vette della multinazionale in parte olandese e in parte britannica (era entrato agli esordi della carriera come stagista neolaureato in marketing). Perché se non sostenibili alcuni business possono anche sciogliersi come gelati al sole. Letteralmente. Infatti sul banco degli imputati sono saliti alcuni prodotti, tra cui il Magnum. Unilever avverte che cederà marchi che danneggiano il pianeta o la comunità: così ha titolato il Guardian a fine luglio. «I consumatori vogliono acquistare da aziende che hanno uno scopo. Oggi non basta proporre uno shampoo per capelli ancora più lucenti, se quel prodotto non è sostenibile. E i principi sono tali soltanto se non scendi a compromessi», ha precisato Jope. Infondo tutto dipende da cosa si è disposti a perdere. E il nuovo Risiko è far quadrare il business con i valori non negoziabili e con una reputazione che incarna una nuova consapevolezza d’acquisto, quella che condiziona soprattutto i millennial: nel giro di qualche anno questo cluster costituirà il 40% degli acquirenti attivi soltanto nel mercato americano. Così il purpose, letteralmente la ragion d’essere o anche scopo, diventa la parola dell’anno.
Una missione che ha segnato anche le dichiarazioni dei 181 capi d’azienda americani della Businss Roundtable, che nel caldo d’agosto hanno ridefinito lo scopo di una impresa. Investimenti nei dipendenti, valore per i consumatori, gestione etica delle relazioni coi fornitori e sostegno alle comunità locali dove si opera. Con gli azionisti considerati alla pari rispetto a tutti gli altri. È questa la nuova definizione, una presa di posizione forte negli anni segnati dal “Ceo activism”, l’attivismo sociale e politico dei top manager. «Investire nel personale e nelle comunità è l’unico modo per avere successo nel lungo termine», ha commentato Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan e presidente della Business Roundtable.

Alla ricerca del brand purpose

Pensare alla società, raccontando al meglio e in modo autentico ciò che si fa. Una priorità certificata anche da un recente studio promosso da Ipsos.Dalle interviste effettuate a 20mila consumatori in 28 Paesi emerge come il 62% oggi pretenda che le marche diano un contributo fattivo alla comunità. Un dato che scende al 50% per il mercato italiano. Ma c’è di più: tra le priorità svettano la riduzione di emissioni e il minor impatto ambientale (77%). A seguire il miglioramento delle condizioni dei lavoratori (50%), la qualità dei prodotti e servizi (37%), l’inserimento nel tessuto sociale con iniziative rivolte al territorio (24%).
«Crescono le aspettative dei cittadini nei confronti delle aziende. Si va alla ricerca di brand che permettono di fare la differenza nel mondo», afferma Nicola Neri, amministratore delegato di Ipsos in Italia. Sul purpose incombe il climate change. «Temi come il global warming sono ai vertici delle preoccupazioni delle società. Anche perché i cittadini dimostrano una diversa consapevolezza sullo stato di salute del pianeta: negli ultimi quattro anni abbiamo registrato un significativo aumento nel numero di persone che dichiarano di avere una conoscenza qualificata del tema ambientale», precisa Neri. Ma attenzione: quasi 7 su 10 fanno fatica a riconoscere – e quindi di fatto a scegliere in fase di acquisto – le aziende virtuose. Un disorientamento che potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata. Per 8 consumatori su 10 i brand non stanno facendo abbastanza quando si parla di ambiente. «Di contro l’aspettativa dei consumatori è che siano proprio le aziende, sostenute da comportamenti virtuosi di amministrazioni e consumatori, a doversi far carico di trovare una soluzione per ridurre la quantità di materiale utilizzato nelle confezioni dei prodotti venduti», conclude Neri.
 Oltre il business c’è di più
utenticità, coerenza, concretezza. Oltre gli slogan, oltre le campagne patinate, oltre i video emozionali. «Stiamo respirando una nuova sensibilità nelle marche, che sono costrette a prendere posizione su tematiche che non avevano fino ad oggi considerato e che sono entrate nel mindset delle generazioni più giovani. Diversità, inclusione, ambiente non sono più un’opzione. Questo comporta però un ripensamento del business e della comunicazione», afferma Paolo Iabichino, direttore creativo e autore di “Scripta Volant”, edito da Codice. Così il purpose oggi diventa scelta obbligata per chi vuole stare sul mercato in maniera contemporanea. «Quelle che riescono a fare meglio sono le realtà che non fanno del purpose un oggetto di comunicazione, ma lo portano nel proprio modello di business e lo integrano nel lungo periodo. Abbiamo vissuto un’estate memorabile per la quantità di campagne e iniziative che sembrano segnare una svolta», precisa Iabichino, che fa un viaggio in questa nuova sensibilità. Così Mattel ha messo in commercio due modelli di Barbie con disabilità, Lego ha reso nota l’intenzione di utilizzare bioplastiche ecologiche e di origine naturale per fabbricare i suoi mattoncini, la tavoletta di cioccolato Cadbury ha celebrato il giorno dell’indipendenza in India con un’edizione speciale di quattro gusti in una barretta, emblema dei colori delle diverse etnie locali. Campagne coraggiose, divisive, quasi in contrasto col proprio business.
Ha fatto il giro dei social l’orgoglioso saluto di Diesel ai quattordicimila follower persi dopo l’adesione al Pride. O la scelta controcorrente della compagnia aerea KLM, che ha avuto il coraggio di lanciare l’iniziativa “fly responsibly”. L’invito per i passeggeri è a considerare altre forme di trasporto rispetto all’aereo.
L’effetto Greta Thunberg va ben oltre le pratiche più spietate e consolidate di overbooking.

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