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Raggiungere Roger McNamee è particolarmente difficile in questi giorni. La California brucia, l’emergenza Covid non dà tregua e i media lo inseguono per dichiarazioni e interviste, ma questa non è una novità. Lo è invece il suo tentativo di esportare il boicottaggio contro Facebook, #StopHateForProfit, anche in Europa, per segnare un nuovo punto nella lotta al modello di business dei giganti della Silicon Valley.

Chiamatela eterogenesi dei fini: sono passati 14 anni da quando il 64enne che ama definirsi musicista e hippy, ma che è noto soprattutto per essere uno dei venture capitalist di maggior successo d’America, consigliò a un allora giovanissimo Mark Zuckerberg di non accettare l’assegno da 1 miliardo di dollari che Yahoo era pronta a pagare per Facebook. Il social network allora fatturava 20 milioni all’anno e l’offerta era francamente spropositata, ma McNamee aveva intuito le potenzialità dell’idea di Zuckerberg. Da allora, e per un decennio, i due sono stati quasi inseparabili. L’idillio, ha scritto McNamee nel libro Zucked (Penguin Random House), si è rotto quando si è accorto che qualcosa di strano stava succedendo sulla piattaforma, prima che le interferenze sulla Brexit e sull’elezione del presidente Donald Trump diventassero cosa nota.

Incapace di far cambiare idea a Zuckerberg sull’esigenza di trasparenza, l’ex mentore e azionista si è trasformato nell’arco di qualche anno in uno dei più fieri critici delle pratiche del suo ex pupillo, denunciandone comportamenti scorretti e frequentazioni poco consone, ultima quella col presidente Donald Trump.

La California è stata un gran posto per un sacco di tempo, ma non lo è più. Viviamo una situazione da pazzi per via di questo presidente e del suo governo. Persino l’incapacità di rispondere all’emergenza Covid ha a che vedere anche con Facebook: il social network ha dato risalto a quelli che dicono che le mascherine sono un fatto politico e non essenzialmente sanitario”, esordisce quando lo raggiungiamo al telefono, in un giorno di fine luglio che marca l’ennesimo record di contagi e le consuete politiche sul presidente. “Ma d’altronde abbiamo quello che ci meritiamo: siamo stati stupidi e arroganti. Potrebbe finire davvero male”.

Male come?

Penso che Zuckerberg e Trump abbiano un accordo: non si sono stretti la mano, ovviamente, ma è un patto implicito. Per un business come Facebook o Google, per chi fornisce prodotti e servizi onnipresenti e utilizzati da tutti, è essenziale rimanere allineati col potere, a costo di passare qualche guaio pubblico. L’allineamento passa per la scelte di specifiche persone. Facebook ha assunto un signore che si chiama Joe Kaplan e lo ha messo a capo della divisione operativa di Washington. Kaplan è un uomo di estrema destra: è stato assunto per fare lobbying sul partito repubblicano ma la verità è che sono stati i repubblicani a utilizzarlo per fare lobbying su Facebook.

Cosa è successo?

Kaplan ha consentito a Facebook di avere entrature eccezionali nel governo, perché il suo migliore amico è Brett Kavanaugh, nominato giudice della Corte Suprema proprio da Trump. Durante l’udienza di conferma della nomina, Kaplan e la moglie erano seduti subito dietro Kavanaugh, come dire che l’uomo non ha alcuna timidezza nel manifestare la sua vicinanza. Infatti, man mano che il comportamento di Trump diventava più allarmante, Facebook adottava policy esplicitamente a suo favore. Gli altri big lo fanno in modo meno palese: YouTube o Twitter danno grande spazio alle teorie dell’estrema destra, ma cercano di essere meno spudorati. Facebook no. E poi, come scoperto dai giornali, Zuckerberg ha avuto, almeno due conversazioni private con il presidente…

Siamo più chiari: quale sarebbe il supporto “esplicito?”

Ecco un esempio. L’estate scorsa Judd Legum, un reporter di Popular Information,  ha scoperto che il comitato per la rielezione di Trump stava facendo circolare su Fb pubblicità che sono illegali stando alla legge americana. Era una specie di concorso: “Puoi vincere una cena col presidente ma solo se rispondi entro la mezzanotte di stasera”. L’annuncio è rimasto visibile per 30 giorni consecutivi: la storia del rispondere entro mezzanotte era quindi decisamente falsa. Non solo: Legum non è riuscito a trovare un solo vincitore del contest. L’unica ragione per farlo era accumulare dati personali.

In Italia, due anni fa, è stato fatto qualcosa di molto simile: il VinciSalvini…

Ma i “Terms of service” di Facebook, le regole interne, vietano espressamente pubblicità che mentano. Però sapete cos’ha fatto Facebook in questa occasione? Non ha vietato le pubblicità, ma ha cambiato le regole… Questo è il patto implicito tra Trump e Zuckerberg: nessun altro ha fatto qualcosa del genere.

Ci faccia un altro esempio.

Qualche giorno fa Trump ha scritto un post in cui diceva che il voto per posta [che è una delle modalità ammesse dalla legge americana, ndr] significa frode. Facebook ha messo un appunto sotto al testo che dice: “Questo post contiene informazioni riguardo il voto”! A voler essere maligni, lo si può prendere come un endorsement della strampalata teoria del presidente.

La domanda ovvia è perché: qual è l’interesse di Zuckerberg, specie considerato che Trump potrebbe anche non essere rieletto?

In America abbiamo un detto: If it bleeds, it leads. Significa essenzialmente che le cose più truculente, o che fanno arrabbiare, sono quelle che funzionano meglio. Ecco, questo vale nel giornalismo, ma anche per i social network: devi far “scaldare” la gente. Gli algoritmi privilegiano i contenuti che fanno scaldare gli utenti e si sa ormai che questi sono l’hate speech, la disinformazione e le teorie cospirative. Con questi temi si scatenano dibattiti e “lotte” virtuali.

Qual è il punto?

Che dibattiti, commenti, lotte virtuali – quello che nel marketing si chiama engagement – trascinano i ricavi, perché catturano l’attenzione. Il modello di business delle piattaforme, a partire da Facebook, si basa su questo tipo di contenuti. Per questo nonostante le protesta pubblica contro certe voci, i big della Valley decidono sempre di ignorarla fino all’ultimo.  E quando saranno costretti a dare retta ai critici, cercheranno di farlo con il minimo danno possibile per se stessi: potranno silenziare una persona, ma lasceranno spazio a decine di altri propagatori di odio o di teorie cospirative.

D’altronde, dare a Zuckerberg il diritto di decidere chi può dire cosa è pericoloso.

Il problema non è che qualcuno scriva un post: il primo emendamento consente a tutti la libertà d’espressione. Il punto è che quel contenuto divisivo viene amplificato intenzionalmente dall’algoritmo, anche se sappiamo che può avere conseguenze pericolose. Le teorie cospirative, l’odio e la disinformazione sono una componente essenziale del business model di Facebook. Questo è il motivo per cui il legislatore dovrebbe chiedersi se è giusto che queste aziende continuino a esistere così come sono oggi.

Pensa che la politica ci stia riflettendo seriamente?

Dobbiamo sperarlo. Nessuno ha la palla di cristallo, ma nell’ultimo mese è successo qualcosa di grosso. In America stiamo vivendo una tragedia legata al coronavirus, visto che siamo stati i peggiori al mondo a gestire la situazione, il che produrrà anche una crisi economica di proporzioni bibliche. In contemporanea, la brutalità della polizia nell’omicidio di George Floyd ha scatenato una risposta inedita: oggi il 77% delle persone crede davvero che Black Lives Matter, che le vite dei neri contino. Non era mai successo qualcosa del genere, in 40 anni: per la prima volta la gente inizia a pensare che il modo in cui questo Paese ha funzionato non è corretto e che va riformato, in molti aspetti, dal mercato alla polizia.

In Europa nel frattempo hanno fatto molta notizia il boicottaggio lanciato contro Facebook e la protesta dei dipendenti contro il loro capo.

Capiamoci, la protesta è stata molto piccola. Ma è stata comunque una prima volta: nessuno aveva mai manifestato apertamente per i fatti legati alla Brexit, per le interferenze russe, persino per quello successo in Birmania, tutte cose in cui Facebook ha avuto un ruolo.

Lei è stato estremamente vicino a Zuckerberg, ed è in parte responsabile della sua fortuna. Non si era accorto prima dei “difetti”, chiamiamoli così, del suo ex pupillo?

Non ho mai detto e non penso che Zuckerberg sia un uomo orribile. Ma ho deciso di essere un attivista, cioè di cercare di mostrare alle persone quello che davvero sta succedendo dentro a Facebook.. Voglio scatenare quella discussione pubblica che le aziende della Silicon Valley proprio non vogliono. Finora hanno vinto loro. In America l’impostazione dominante è che la moralità non conta, quando si parla di affari. È vero in qualsiasi settore, ed è stato così per decenni, ma il settore in cui operano Facebook o Google ha più impatto di qualsiasi altro. È necessario che inizino a essere responsabili verso i loro lavoratori, verso la nazione, verso la società tutta.

Il boicottaggio come sta andando? Zuckerberg sembra piuttosto tranquillo.

Abbiamo avuto più di 1.000 aziende aderenti. La novità è che ci stiamo preparando a lanciarlo anche in Gran Bretagna, come testa di ponte per l’Europa. Gli investitori sono quelli che fanno i ricavi di Facebook: dovrebbero mobilitarsi anche in Italia, senza aspettare che siamo noi da qui a organizzarlo. 

Se non fosse che Facebook e Instagram sono gli strumenti migliori per decine di migliaia di piccole imprese, in Italia.

È verissimo che Zuckerberg ha la piattaforma per la pubblicità migliore al mondo, ed è vero che è un monopolio: per questo dovrebbe essere regolamentato. Credo che in Europa – dove siete stati più attenti e capaci di intervenire che nel resto del mondo – qualcuno si aspetti una soluzione globale ai problemi di Facebook. Io credo invece che voi abbiate maggiore consapevolezza di noi, e che dopo la Brexit dovreste proibire quantomeno le pubblicità di tipo politico. Almeno finché le cose non cambieranno. 

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