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È stato il Festival della performance dell’artista romano che ha portato all’Ariston, non solo una serie di outfit ad effetto, ma un vero e proprio storytelling costruito insieme alla maison. Ma si può parlare di arte o è stato solo uno spot commerciale subliminale? Ne abbiamo parlato con Paolo Iabichino, ex Cco di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story Design alla Scuola Holden di Baricco

Come hanno certificato tutte le testate, di settore e non, sull’onda del riscontro in particolare social quello che si è appena concluso è stato il Sanremo di Achille Lauro. C’è chi ha azzardato l’iperbole che sia stato un Achille Lauro Show con il Festival intorno. I toni sono trionfalistici. Addirittura Internazionale, riferendosi al musicista, scrive «in una scena musicale mainstream, dopata da vent’anni di talent show e ancora stordita dalla crisi discografica globale, quello della pop star è diventato un mestiere antico e dimenticato, come quello dell’impagliatore di sedie o della ricamatrice di asole. Lauro ha fatto quello che le pop star fanno fin dagli anni cinquanta: usare il mezzo televisivo anziché esserne usati». Quello però che è stato per tutto il Festival di Sanremo taciuto dai media e dallo stesso Achille Lauro e che ha cominciato ad emergere solo verso la fine della kermesse per svelarsi definitivamente nei giorni successivi è che quella performance, quello spettacolo, non erano solo una narrazione artistica ma una vera e propria operazione di marketing costruita insieme a Gucci. Paolo Iabichino – ex CCO di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story Design alla Scuola Holden di Baricco – ha commentato la vicenda spiegando a Giulia Vittoria Francomacaro​ di Agi Factory​ che «il brand ha portato avanti una missione strepitosa: Gucci ha hackerato il Festival di Sanremo. Nel senso che è riuscito a essere il terzo sponsor senza passare dai listini Rai e ha costruito intorno ad Achille Lauro una strategia editoriale molto precisa a cui lui si è prestato. Il testo di Lauro era sotto di un’ottava rispetto a quelli a cui siamo abituati. È come se avessero caricato in chiave marketing un personaggio per riempirlo di un contenuto che quest’anno aveva in misura minore. Gucci ha fatto scuola sotto questo punto di vista e ha dato una lezione intelligente di comunicazione e pubblicità. Non parliamo di una classica operazione di product placement, che potrebbe essere ad esempio quella di Elodie che ringrazia Versace per i vestiti, questa è una vera e propria case history. Qui si parla di novità, di uno show costruito ogni sera e incentrato su tematiche come arte, cultura, moda e musica che si intrecciano in quattro minuti di esibizione». Un’operazione però che lascia qualche dubbio. 

Ne abbiamo parlato proprio con Iabichino.


Paolo Iabichino Ogilvy
Paolo Iabichino (ph. by Isabella De Maddalena)

Innanzitutto è importante spiegare perché l’operazione Gucci- Lauro è molto differente da una normale operazione di product placement…
Perché è un’operazione editoriale. Qui non si tratta di aver portato in scena degli outfit. Dietro queste quattro serate c’è uno storytelling molto preciso, studiato a tavolino, portato avanti da Gucci, e dal direttore creativo Alessandro Michele, che ha scelto Achille Lauro non come modello ma come vero e proprio testimonial di una serie di messaggi. Ci sono link con l’arte e con la cultura. Il post di ieri di Achille Lauro su Instagram poi, con sotto tutti i credit della rete di professionisti che hanno lavorato allo show disegnato da Gucci, lo certificano apertamente.

Non è noto e quindi non si può dire con certezza. Ma si può immaginare di fare una cosa del genere senza che ci siano accordi commerciali o contratti?
Se Achille Lauro non ha stipulato degli accordi con Gucci è un ingenuo

E se c’è qualcosa che non si può dire di Lauro è che sia ingenuo…
Sono d’accordo. C’è una cosa in particolare che mi fa pensare che ci sia questo accordo: non è ancora uscito il videoclip ufficiale della canzone che dal punto di vista discografico e di marketing è un errore abbastanza marchiano. Se tanto mi dà tanto quel video sarà un importante look book di Gucci che dovrebbe consacrare quella che secondo me resta un’operazione intelligentissima dal punto di vista pubblicitario. Hanno preso d’assalto il Festival e Gucci è riuscito ad essere il terzo sponsor di Sanremo dribblando i listini.

E da questo punto di vista non esiste un problema nei confronti del main sponsor Tim, o della Nutella che aveva brandizzato la parte esterna o della stessa Rai?
Io credo di no. Intanto ci muoviamo su categorie merceologiche completamente diverse e non in concorrenza. Se Tim non ha avuto nulla da dire, da main sponsor, ad avere il principale testimonial di un concorrente diretto tutte le sere sul palco (Fiorello è da anni il volto di Wind ndr), non credo che su Gucci possano esserci problemi. La Rai poi deve solo ringraziare Lauro e Gucci per la grande attenzione che si è creata su questa edizione della kermesse. È una cosa che su quel palco non si era mai vista. Non si può paragonare con gli outfit di Renato Zero o Donatella Rettore: c’era molto altro anche dal punto di vista narrativo. Basta pensare ai messaggi che Lauro ha portato sul palco in termini di diversity, gender neutrality e fluidità di genere. Questo è quello che bisogna sottolineare come un risultato del tutto positivo.

Il cuore della questione però è un altro. E cioè la sovrapposizione tra espressione artistica e culturale e una campagna pubblicitaria. Il fatto di non renderla nota non è un problema, soprattutto nei confronti del telespettatore?
Per dove siamo oggi la moda è un prodotto culturale. Non possiamo più ridurre la moda o un certo tipo di moda a un fattore puramente di marketing e pubblicitario. Oggi se si pensa a cosa fa Prada con la su Fondazione o quello che sta facendo Fendi a Roma è evidente che la moda sta sempre più entrando e contaminando il linguaggio della cultura. Non è che se una maison fa un museo di arte contemporanea ci va bene se invece presidia un palco di un festival non va più bene perché la musica va preservata. Secondo me c’è un momento di grande contaminazione di linguaggi. Moda come pop music sono proprio principalmente contaminazione di linguaggio. Queste secondo me sono le lenti con cui guardare a quello che è successo.

D’accordo. Però se Andy Warhol, che è stato il massimo esponente della contaminazione di linguaggi, avesse percepito una retribuzione da parte della zuppa Campbell’s per la sua opera, quel quadro assumerebbe totalmente un altro significato…
Non c’è dubbio. Ma quella di Warhol era un’operazione controculturale. Lauro e Gucci sono invece pienamente mainstream. Non è un’operazione rock, non c’è nulla di trasgressivo se non la violazione di un tempio. Ma dal punto di vista della costruzione del messaggio non c’è trasgressione. E poi attenzione: ai tempi di Warhol non c’era Instagram. Questo è stato un Festival dominato dai social. E Gucci e Lauro hanno vinto sul terreno più competitivo in questo momento che è quello dell’attenzione.

C’è anche una questione contenutistica. Il brano di Lauro è, si può dire apertamente, molto trascurabile. Il senso se c’è è davvero flebile. Soprattutto rispetto ai testi precedenti. L’unica parte dirimente è il titolo, “Me ne frego”, che è una sorta di claim pubblicitario…
Io non credo sia stata costruita a tavolino per questo. Penso che in effetti sia un brano più debole del solito che però è stato magnificamente sostenuto e supportato da un intervento narrativo che ha caricato di significanti che il testo non aveva, nobilitandolo. Ma c’è un altro passaggio del testo che potrebbe essere un meta-messaggio, quel “dimmi una bugia e me la bevo”. Chissà…

La cosa che lascia un po’ interdetti più che altro è l’idea di associare a personaggi come San Francesco e David Bowie il concetto di menefreghismo, seppur ammorbidito dal aggettivo “positivo” coniato da Lauro. Quello che viene in mente è che “me ne frego” è di certo più accattivante di un “mi interesso”. E qui torna il dubbio di prima: arte o marketing?
Su questo in realtà l’unico che può rispondere è Achille Lauro. Si tratta di capire se, al netto di tutti gli introiti pubblicitari e della performance spettacolare, l’artista aderisce a posteriori a quel messaggio oppure no. Più semplicemente se è autenticamente parte di questo percorso artistico o è stato solo un uomo sandwich di una maison che ha portato a termine un’operazione di marketing culturale.

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