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Pensare l’infosfera”, dice Luciano Floridi, filosofo, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab. Ha intitolato così il suo ultimo libro, pubblicato da Raffaello Cortina e raccontato, nei giorni scorsi, in tre incontri al Teatro Parenti a Milano.

E sostiene che stiamo vivendo una “quarta rivoluzione”, dopo quelle avviate da Copernico, Darwin e Freud, legata alla diffusione del “digitale”, con tutto il carico dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale che amplia profondamente le dimensioni dell’Information and Communication Technology che abbiamo finora conosciuto e applicato ai processi economici e sociali.

Floridi spiega, dunque, che “l’infosfera rappresenta un nuovo modo di stare insieme, in tutti gli ambiti della vita, dall’educazione al business, dalla politica alla cultura, dal commercio alla salute e all’intrattenimento e ci pone delle sfide sconosciute, facendo del Novecento un mondo obsoleto”. Infosfera come “nuovo spazio”. Rispetto al quale “ci dobbiamo chiedere: come lo stiamo costruendo? Lo stiamo costruendo bene?”.

Pensiero e tecnologie digitali. Riflessione sul senso e il valore delle cose, delle azioni, delle scelte. Elaborazione di nuove idee adatte al cambiamento dei tempi. Floridi è molto chiaro: “La rivoluzione digitale ha effetti sulla nostra autonomia di persone: la nostra libertà, la nostra capacità di determinare le scelte dipende sempre più dai dati. E comincia anche a essere messa in discussione la nostra eccezionalità.

Come esseri umani ci siamo a lungo identificati con l’autodeterminazione e con l’intelligenza, che adesso sono entrambe sotto attacco. L’algoritmo di Netflix ci dice: guarda questo film, ti piacerà. E a scacchi non giochiamo più contro il computer, tanto sappiamo che vincerà lui. La filosofia può essere d’aiuto nel ripensare la nostra unicità” (la Repubblica, 6 febbraio: “Ci vorrebbe un Socrate dell’era digitale”).

Nel tempo controverso delle grandi trasformazioni, proprio per orientarsi di fronte alle questioni e alle scelte che la velocissima evoluzione tecnologica ci pone, emerge con forza il bisogno di una nuova consapevolezza umanistica. E tornano alla ribalta i filosofi. Così come gli intrecci di politica e affari, culture e sfide legate alla sicurezza e alle life sciences nel mondo globale rilanciano la necessità di avere geografi originali per riscrivere le mappe capaci di orientare il nostro cammino.

Filosofi e geografi, per il mondo nuovo. Poeti e letterati, perché nulla come la letteratura sa raccontare lo splendore e la tenebra nel cuore degli uomini (Shakespeare, più di tutti, ne è stato maestro). E storici, per affinare gli strumenti in grado di chiarire le relazioni tra passato e futuro, ricordando la lezione, tra gli altri, di un grande artista contemporaneo, Jannis Kounellis: “Il problema non è quello dell’antichità, ma dell’attualità. E non esiste nessuna attualità senza antichità. La si trova in tutto”.

Se queste sono riflessioni che si incrociano, nel mondo della cultura, della formazione, ma anche dell’economia e della scienza, non può non fare riflettere con una certa preoccupazione il fatto che nelle scelte degli studenti e delle loro famiglie, in vista delle iscrizioni alla scuola secondaria, restino sì in testa i licei, con il 59% delle preferenze (per l’anno scolastico 2020/2021) e un buon passo avanti rispetto al 53,5% dell’anno precedente, ma con un’affermazione straordinaria del liceo scientifico cosiddetto light, quello senza il latino. I dati si riferiscono alla Lombardia.

E in dettaglio documentano come sia aumentata la percentuale dei ragazzi che invece del latino e dell’ora di filosofia, preferiscono un maggiori numero di ore di scienza, di informatica o di discipline sportive o economico-giuridiche.

Perché? Una scuola più semplice ma anche più contemporanea, più adatta ai nostri tempi tecnologici. E più utile per trovare lavoro, si spiega. Questa idea dei ragazzi e delle loro famiglie si lega anche a una tendenza che cresce di peso negli ambienti dell’economia e dell’impresa: è necessario formare persone con gli strumenti adatti a rispondere all’offerta del mercato del lavoro.

Servono competenze scientifiche e tecnologiche, giovani con una formazione in grado di inserirsi nel mondo digitale, tecnici preparati per “Industria 4.0”, l’evoluzione digitale della nostra sofisticata manifattura.

Ci si trova di fronte a due tensioni diverse, entrambe con una certa dose di ragione.

Da tempo le imprese italiane lamentano, giustamente, una diffusa carenza di formazione tecnica e tecnologica. E il dato che ricorre in tutti i dibattiti è quello relativo agli Its, gli Istituti Tecnici Superiori, che qui da noi hanno poco più di 8mila iscritti, un numero davvero esiguo, soprattutto se confrontato con quello tedesco: 800mila.

Investire sulla formazione tecnico-scientifica, si dice nel mondo delle imprese, privilegiando gli istituti tecnici tradizionali, quelli “superiori” (come appunto gli Its) e i corsi di laurea “Stem”, l’acronimo che sta per science, technology, engineering e mathematics, poco frequentati in Italia.

Su un altro versante, molti insistono sull’importanza di un rilancio degli studi classici, per potere avere strumenti di comprensione di un mondo in cambiamento. Costruire conoscenze e non solo competenze.

E, di fronte al rapido usurarsi di tecnologie e contenuti professionali, data appunto l’evoluzione delle culture digitali, formare i giovani a “imparare a imparare”, per usare l’efficace definizione di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino e presidente del Cnr, prima di diventare ministro dell’Istruzione.

C’è una sintesi possibile? Forse, sta nella necessità di insistere sulla “cultura politecnica”, convergenza di saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di investire nel lungo periodo d’una formazione che abbia solide radici classiche, anche per i programmi degli Its e programmi aperti alle evoluzioni delle tecnologie e della scienza anche per i licei classici.

Costruire ingegneri filosofi (come si è detto spesso in questo blog) e tecnici sensibili alle domande di senso delle cose e non solo alla loro efficienza e produttività. Lavorando sulla formazione di persone consapevoli della “utilità dell’inutile”, riprendendo l’efficace titolo d’un bel libro di Nuccio Ordine, letterato attento ai temi della filosofia e della scienza.

Si torna così alla lezione di Floridi sulla “cura dell’ecosistema”, sull’etica che deve ispirare la relazione con la tecnologia. Un Nuovo Umanesimo da scienziati consapevoli e responsabili. Formati con robuste dosi di pensiero critico fin dai banchi di scuola.

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