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Di Stefano Rolando (1)

Il drammatico mese di annuncio, esplosione e planetarizzazione del contagio epidemico prodotto da Condiv-19, si è accompagnato in Italia (e non solo, ovviamente) da una costante polemica sul rapporto tra istituzioni e cittadini riguardante la forza sociale, l’autorevolezza, la chiarezza, la sperimentata navigazione dell’emergenza e, in sostanza, sull’efficacia della comunicazione istituzionale. Parlando dell’Italia – ma con gli occhi di chi opera nel mondo – Luciano Floridi (professore di Filosofia e Etica dell’Informazione a Oxford) ha scritto che “la cattiva gestione della comunicazione ha innescato drammatizzazione e banalizzazione e ha polarizzato le opinioni” (2) .

Bisogna dire subito, tuttavia, che tra i tanti dualismi che hanno caratterizzato il dibattito pubblico sulla crisi in Italia anche qui c’è un dualismo che precede di gran lunga la crisi stessa. Dell’invasività della comunicazione politica, si è parlato a più riprese. Cioè dell’esercizio da parte dei vertici politici di uno sconfinamento abituale laddove – soprattutto quando la materia è complessa e altamente tecnica – può rendere il ruolo del politico di professione, sia pure nell’esercizio di una legittima autorevolezza di funzione, impreciso e impreparato. Cosa che, quindi, proprio nelle condizioni emergenziali, consiglia che il presidio sia affidato a figure di credibile competenza, riservando alla politica momenti di assunzione di responsabilità in ordine a rilevanti scelte e in supporto di annuncio di regole da attuarsi. Certo, ha pesato una prima fase di incertezze, poi risolta con la quotidianità presidiata consolarmente dall’Istituto superiore di Sanità e dalla Protezione civile, e con un ruolo di battitore libero naturalmente del capo del Governo, ruolo che raccoglie critiche tra gli addetti ai lavori e naturalmente nel quadro politico di opposizione, ma che ha visto anche crescere durante la crisi un riconoscimento di affidabilità e di qualità di mediazione presso gli italiani, fino al gradimento di due terzi dei cittadini.

La sostanza delle critiche (intere maratone televisive sono state dedicate al tema) ha riguardato tre argomenti: il ritardo di individuazione di una fonte unica e autorevole; l’avere compiuto una gestione “poco comunicativa” quindi sostanzialmente burocratica dei dati; non avere creato le condizioni di un effettivo coordinamento della rappresentazione di tutti i temi coinvolti nell’ampio spettro delle problematiche connesse, con eccesso di conflittualità (quindi generatore di confusione nell’opinione pubblica) tra Stato, regioni e territori. Nodi formatisi nel tempo Al di là della corrispondenza delle critiche e soprattutto dell’imprecisabile influenza della questione sull’andamento dei processi reali, è evidente che questo genere di problematiche non nasce a ridosso dello scoppio improvviso della epidemia, nasce nel quadro di una lunga vicenda con aspetti che nel tempo – e segnatamente dall’approvazione della legge che regola in Italia la comunicazione istituzionale (nel 2000) – sono rimasti irrisolti, alcuni poi aggravatisi negli anni.

Il punto dunque non è solo quello del rapporto tra funzioni e competenze. Ma quello della vera e propria missione che si ritiene debba svolgere una comunicazione “speciale” che non dovrebbe essere direttamente collocata in fonti che possono essere percepite con interessi parziali o che agiscono con sottostanti intenti di favorire queste parzialità. Una missione che non deve essere neppure collocata ad un livello di ufficialità che dà magari certezze ai dati statistici, ma che fa venire a mancare quella – espressa e percepita – socialità che consente di svolgere a tempo pieno un vero e proprio accompagnamento (anche narrativo) di tutta la società. Funzione difficile che deve cogliere tre obiettivi tra loro fortemente connessi:

  • avere la qualità di dare corrette spiegazioni dei fatti e dei processi in corso, fuori dalle formule dei comunicati e all’altezza di una domanda diversa, tanto popolare quanto altamente profilata;
  • accompagnarsi, di volta in volta, con tutti gli esperti necessari per argomentare in profondità o in spiegabilità passaggi oscuri ai più e comunque di interesse generale;
  • essere accreditata dal sistema dell’informazione come figura (o team) che opera nel rispetto delle libertà del sistema dell’informazione e al tempo stresso con una formazione che si presti a cogliere le istanze relazionali con i media attorno a tutte le connessioni da cui dipende un’azione più corale verso i cittadini, in alcuni momenti indispensabile a convivere funzionalmente con i contesti di crisi.

Comunicazione pubblica e qualità sociale

Parliamo in sostanza di “qualità sociale”. Che comprenda tra l’altro una neutralità intelligente ma al tempo stesso una compenetrazione con il disagio e i rischi dei cittadini che svolga un raccordo serio e necessario tra le preoccupazioni istituzionali di “non allarmare” e le preoccupazioni dei cittadini di “sapere”.

Non necessariamente si tratta di una figura “giornalistica” in senso stretto, anche se la legge 150/2000 ha identificato per tali scopi una figura prevalentemente di cultura giornalistica. Ma può anche rivestire un’esperienza maturata nel quadro istituzionale proprio nella mediazione tra istanze decisionali, istruttorie in atto nelle amministrazioni, domanda sociale e qualità di competente tempestività rispetto alle dinamiche dei media.

In verità il Portavoce di un capo di Governo – o figura di equivalente profilo istituzionale – dovrebbe avere per definizione questi caratteri altamente professionali. A meno di non pensare che nel corso del tempo queste figure – che avevano una volta una parte sicura di queste skills (3) – non siano diventate funzionali alla sola promozione di immagine della figura che li ha chiamati all’opera, abbandonando tutto ciò che li lega autorevolmente e con percezione esterna affidabile ad essere tanto al servizio dell’istituzione quanto ai cittadini. Se si vuole immaginare proprio il riferimento ai contesti di un altro tempo – prima della invasione del virus dell’immagine nel sistema della comunicazione istituzionale – si potrebbe anche ricordare che accanto al presidio della relazione con i media, come accennato con gestioni comprese nell’esperienza relazionale con un mondo professionale che dovrebbe avere la propria ragione di difendersi dalla propaganda politica, vi è poi nell’esperienza di tutta Europa il presidio al rapporto stabile, programmato, neutrale ed efficace con la società in via diretta. Appunto ciò che dovrebbe essere lo specifico momento della comunicazione istituzionale. Quello che dal 1995 in poi si è appoggiato alle grandi opportunità di internet e quindi costruendo ponti possibili con utenze ampliate in una relazione non solo diretta ma anche sempre più interattiva.

Ambito che non può essere pensato solo al servizio dell’informazione circolare con i media (che pur resta parte di questo schema), ma che deve poggiare su una visione stabile di marketing sociale che ricorda che l’informazione delle istituzioni deve includere, non escludere (come fa il marketing commerciale) e deve tener conto delle sensibili differenza di impatto (culturale, linguistico, sociale) rispetto ad utenze estremamente differenziate.

Su questo dualismo funzionale in verità si fondava il disegno della legge 150/2000 e proprio questo dualismo è stato negli ultimi venti anni costantemente attaccato da una preferenza della politica per un sovra-ordinamento che alla fine ha eroso proprio i caratteri che oggi – nella voragine di una crisi lunga e micidiale (ma con tanti precedenti nelle condizioni di crisi negli anni) – i cittadini reclamano come una condizione di garanzia.

Un tavolo che, prima della crisi, si è riaperto. Si vedrà con quali prospettive

Si è riaperta di recente una discussione formale sui sostanziali profili adatti ai nostri tempi della comunicazione istituzionale. Discussione che resta viva in tutta Europa e piuttosto ben presidiata da vari organismi (4), pur nel quadro di deformazioni che ormai corrispondono strutturalmente alla crisi politico-istituzionale dei sistemi democratici e, se vogliamo, anche ad una fase di evidente transizione della politica, da sistema professionale “di casta” a forme ispirate alla democrazia partecipativa. Transizione cioè rispetto alla necessità di trovare adeguati equilibri tra competenza e rappresentanza.

Nella discussione recente in Italia – e ancora con opzioni sospese – è apparso anche il tema della riformabilità di quella legge che da aventi anni regola la materia. Discussione che ha certo legittimità in ordine al modo di immaginare tanti aspetti resi realtà dalla traforazione digitale. Ma non deve perdere di vista quel carattere che è stato squilibrio con gli effetti di un boomerang che oggi si rivela serio per la stessa democrazia. Se i maggiori esperti di demoscopia italiana si ritrovano nel giudizio, a un mese dallo scoppio della crisi, di maggiore “bisogno di istituzione” da parte dell’opinione pubblica, anzi di una vera e propria domanda di “responsabilità sociale” da parte delle istituzioni, dovrebbe preoccupare che questa invocazione sia espressa con pari sfiducia per i politici che quelle istituzioni per disegno costituzionale devono presidiare e guidare.

Ciò rende dunque le “soluzioni” ai problemi di profondo adattamento della funzione ai bisogni del nostro tempo, sempre più alimentati da crisi, emergenze, allarmi, non riconducibili a qualche sbrigativo aggiornamento tecnocratico. Senza entrare in una modernità più pacificata della politica sarà difficile che la comunicazione istituzionale ritiri una parte importante della sua attività dal terreno della pura produzione di immagine e visibilità per tornare a presidiare la relazione sociale di tre ambiti inquieti: l’identità, la coesione, la comprensione.

C’è chi dice che Coronavirus aiuti in questa direzione. Con un certo pessimismo della ragione, lo vogliamo sperare.

Note

  1. Università IULM, Milano – Direttore di Rivista italiana di comunicazione pubblica. Presidente del “Club of Venice” (comunicazione istituzionale in Europa).
  2. In Repubblica D, 28.3.2020, Infodemia, l’altro contagio. E la sfida digitale per affrontare la prossima crisi.
  3. Prendiamo gli anni ’80 e ’90 come riferimento al tempo in cui la questione era “percepita” indistintamente dai governi. Portavoce di Craxi fu Antonio Ghirelli, figura di direttore di giornali, di scrittore e intellettuale, con competenze riguardanti gli sport più popolari. Con Andreotti, il capo del servizio politico dell’Ansa, Pio Mastrobuoni. Con Amato, Gastone Alecci redattore capo di organi della stampa economica. Con Goria, Tiziano Garbo, sobrio giornalista economico, caratteristica che era anche quella di Paolo Peluffo portavoce di Ciampi. Con De Mita, un serio professionista dell’informazione politica proveniente da Panorama, Nazareno Pagani. Persino Berlusconi al momento di dover fronteggiare il G7 di Napoli optò per l’incarico a Jas Gawronski, giornalista di vaglia di cultura internazionale.
  4. Vivo e impegnato in molteplici iniziative è il Club of Venice, coordinamento informale della comunicazione istituzionale dei governi dei paesi membri e delle stesse istituzioni UE, oggi costituente un tavolo (arricchito da esperti e studiosi) di quasi cento partecipanti. Vive sono anche alcuni associazioni professionali, in vari paesi europei, che svolgono più orientamento all’aggiornamento culturale e al dibattito deontologico che presidio sindacale.
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