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L’economia ha da sempre avuto, perlomeno nei primi periodi del suo sviluppo come scienza, uno stretto legame con la psicologia, basti ricordare che fu proprio Adam Smith a scrivere un importante testo[1] che descriveva come i principi psicologici potessero influire sul comportamento individuale e poi collettivo.
Anni fa, scrivevo – nell’incipit di un mio articolo sul rapporto tra biopsicologia e qualità del lavoro in azienda[2], materia nella quale Adriano Olivetti fu maestro – che Francois Michelin, l’uomo che portò la sua fabbrica di pneumatici a essere leader mondiale assoluta nel proprio settore, in una straordinaria intervista rilasciata in età già avanzata affermava: “ ‘tagliare pietre’ e ‘costruire cattedrali’, ancorché atti simili, sono in realtà azioni ben diverse”.
Come sempre in questi casi, i confini tra la frase pronunciata dall’81enne fondatore della dinastia imprenditoriale francese e l’agiografia costruita dall’ufficio stampa della nota multinazionale, sono più labili di quanto si possa pensare, ma una cosa mi sento di affermare con certezza, confortato dalla scienza: “pensare al futuro”, dando concretezza alle proprie passioni e ai propri sogni, costruendo costantemente nuovi scenari, giova non solo al business, ma anche alla qualità dell’esistenza delle persone e la loro aspettativa di vita. Non in astratto, ma concretamente, dal punto di vista biochimico, ormonale e neurologico.
Se dicessimo che interessarsi del ruolo delle aziende all’interno della società, della responsabilità che esse hanno verso i propri stakeholders, e di come rendere più sostenibile – tramite la propria azione imprenditoriale – lo sviluppo del pianeta, allunga anche l’esistenza di chi se ne occupa, in termini di aspettativa di vita, strapperemmo nella migliore delle ipotesi un sorriso ironico d’incredulità al nostro interlocutore; se poi cercassimo di convincere un imprenditore che la sua vita sarà realmente più breve – nel senso che morirà prima, o il suo indice di salute peggiorerà comunque più velocemente – in quanto Lui si sta disinteressando dell’effetto delle sue azioni sulla società che lo circonda, premendo troppo sul pedale del profitto e del mercato, forse otterremo una reazione di disappunto ancora più brusca.
In questo breve saggio dimostreremo invece che queste ipotesi sono tutt’altro che fantasiose, e che la scienza ha qualcosa di assai interessante da dire al riguardo.
In un articolo per la rivista on-line “Fisica Quantistica”, Marcello Andriola, Antropologo Cognitivo presso l’Università di Firenze, evidenzia come in senso lato l’intelligenza possa essere intesa come la capacità di ogni organismo di adattarsi e sopravvivere nel proprio ambiente.
A differenza di altre specie animali pure molto “performanti”, come ad esempio virus e batteri, l’Uomo oltre ad essere un agente modificatore dell’ambiente naturale è l’unico essere vivente che opera costantemente come agente modificatore di un altro tipo di ambiente, quello culturale, nel quale è costantemente immerso e con il quale interagisce. Questo condiziona – sia positivamente che negativamente – l’evoluzione della specie ma anche di singoli gruppi umani, e le aziende non fanno certo eccezione. Da alcuni anni, questo tipo di interazioni sono oggetto di studio e di tentativi di misurazione.
Da quando nel 1996 lo psicologo americano Daniel Goleman ha descritto l´intelligenza emotiva, ovvero l’insieme di capacità complesse legate alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie e altrui emozioni, si sono rapidamente moltiplicate vere e proprie mappe mentali e sistemi di valutazione per misurare il bagaglio di “competenza emotiva” nella vita privata come nel mondo del lavoro. Diversi cacciatori di teste tengono conto tanto del Q.E. – Quoziente Emotivo – quanto del Q.I. – Quoziente Intellettuale – consapevoli che del valore profondo dell´emotività, il cui governo – e ciò include la valorizzazione delle relazioni con gli altri e con l’ambiente – permette non solo di saper riconoscere le proprie emozioni e i loro effetti, ma anche di dominare i propri stati d´animo e gestire i rapporti con comprensione ed empatia, alla ricerca di una “ricomposizione ideale” tra ragione e sentimento.
Prova ne sia che – come ricorda sempre Andriola – anche Albert Einstein si era pronunciato sul punto, affermando: “Noi viviamo in una sorta di prigione che ci separa dagli altri, e il nostro compito deve essere quello di allargare il raggio della nostra empatia”. Oggi come oggi, infatti, si parla di “competenza emotiva” come del fulcro di ogni capacità di leadership degna di questo nome. Siamo tuttavia ben lontani da un approccio meramente “new-age”: questo settore è da tempo ormai dominio delle neuroscienze, che indagano come l’intelligenza emotiva sia in relazione con la quantità e qualità di connessioni fra corteccia prefrontale e sistema limbico, connessioni che vanno ben oltre la regolazione delle emozioni. Le connessioni fra l’amigdala e le strutture limbiche affini e la neocorteccia sono infatti al centro di quelli che possiamo definire come “gli accordi di cooperazione fra pensiero e sentimento”, e risultano fondamentali per valutare l’attitudine dell’individuo a condizionare positivamente l’ambiente che lo circonda. Il sistema limbico ha complesse interazioni nervose e biochimiche con la corteccia cerebrale, ed è fondamentale per regolare i comportamenti istintivi, distinguere i ricordi positivi e negativi selezionati dall’ippocampo e dall’amigdala, e presiedere la memoria, l´attenzione, l´apprendimento e le emozioni, nonché l’eccitazione sessuale, la rabbia, l’ansia e il rilassamento.
Questa visione, ad esempio, classifica l’apprendimento non più solo come un processo statico, legato ad esempio a frasi dette da un relatore o alle parole scritte in un libro, legato solamente al piano cognitivo e slegato dall’esperienza dell’individuo nel proprio ambiente, bensì come un processo che include ogni emozione positiva o negativa che proviamo, anche inconsapevolmente. Come ci ricorda l’enciclopedia online Wikipedia, lo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi riflettendo sul ruolo fondamentale dell’empatia nei processi di apprendimento, ha focalizzato la sua attenzione su quello che ha definito “flusso di coscienza”: “il vivere l’atto in sé, nello scorrere piacevole delle emozioni che un’azione suscita, completamente immersi nella situazione”. Riuscire a “sintonizzarsi” con un flusso di coscienza permette quindi di realizzare un processo di apprendimento più coinvolgente ed efficace, tale da realizzare appieno il concetto di “team-building”.
E se consideriamo che – come ho ricordato – l’intelligenza emotiva coinvolge anche la promozione della crescita emotiva e intellettuale dei singolo, del gruppi – aziende incluse – e della specie, comprendiamo l’importanza dello studio approfondito dell’epigenetica, la parte della biologia molecolare che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari non attribuibili solo e direttamente alla sequenza del DNA, ma anche alle interazioni uomo/ambiente. E’ provato dalle conquiste dell’evoluzione che l’essere umano sia in grado di influenzare significativamente ciò che lo circonda, ma in quale misura – e quanto in profondità – l’ambiente è viceversa in grado di influenzare concretamente l’Uomo?
Procedendo con ordine, cercando conferme alla nostra tesi del “canale di influenza a due vie”, e – come per ogni approccio scientifico che si rispetti – analizziamo un esperimento, svolto, neanche a dirlo, sui topi.  Come ci racconta il giornalista Uwe Jean Heuser dalle pagine del quotidiano tedesco “Die Zeit”[3], due economisti hanno condotto uno studio in cui era in gioco la vita di un topo, tentando di dimostrare la correlazione eventualmente esistente tra mercato e senso morale dei singoli individui. Il lavoro – svolto dall’equipe del Prof. Armin Falk, del Center for Economics and Neuroscience dell’Università di Bonn e pubblicato dalla rivista scientifica statunitense “Science” – ha avuto esiti davvero interessanti: l’attenzione ossessiva al mercato distrugge l’etica, o perlomeno spinge l’uomo a porla in secondo piano. La ricerca muoveva da una domanda: perchè gli esseri umani sono disposti a calpestare i valori morali? L’ipotesi è che vi siano spinti dal mercato, che stabilisce una distanza tra le persone e le conseguenze delle loro decisioni.
Chi pensa ai campi allagati in Asia quando compra dei mobili in legno pregiato? Chi conosce le persone che cuciono in condizioni indegne una maglietta, che poi noi in occidente compriamo volentieri a basso costo? Sono prodotte a migliaia di chilometri di distanza, quindi quando mai ci poniamo domande su chi e come le ha cucite?
Nell’esperimento i partecipanti dovevano decidere se in un mondo basato sulla legge della domanda e dell’offerta erano disposti a fare qualcosa di eticamente censurabile secondo la morale comune in cambio di denaro. In pratica, hanno dovuto scegliere tra una somma di denaro e la sopravvivenza di un topo: accettando i soldi, il topo sarebbe stato ucciso; rinunciando al guadagno, l’équipe di Falk avrebbe pagato il laboratorio per il mantenimento dell’animaletto. Per due giorni e mezzo, duecento computer portatili e mille studenti sono stati coinvolti – a rotazione, e in forma anonima – nell’esperimento: alcuni sceglievano da soli tra etica e denaro, interagendo con il computer, mentre altri agivano in un circuito dove ognuno di loro recitava a turno la parte del venditore o dell’acquirente. Il primo caso era elementare: ogni partecipante doveva decidere tra un guadagno di dieci euro e la condanna a morte di un topo, oppure tra la rinuncia al denaro e la sopravvivenza del topo. Nell’altro caso, ai venditori era affidato un topo, mentre i compratori avevano venti euro a disposizione ciascuno, e le due parti potevano “trattare” sulla vita del topo: se raggiungevano un accordo, il venditore riceveva il pagamento pattuito, mentre il compratore tratteneva il resto dei venti euro a sua disposizione se riusciva a strappare un prezzo inferiore.
Il risultato del test è stato che, quando dovevano scegliere da soli, i partecipanti hanno optato nel 45% dei casi per il denaro condannando a morte il topo, mentre nelle “trattative di mercato” la proporzione di coloro che sceglievano il denaro e facevano così morire il topo è salita al 75%, il prezzo medio è stato di 6,40 euro e ha continuato a scendere man mano che l’esperimento veniva ripetuto. Alla fine i venditori sacrificavano i topi in media per meno di cinque euro. Nella situazione di mercato, quindi, l’etica aveva meno influenza che nelle decisioni individuali, e a quanto pare la situazione è degenerata ulteriormente con il passare del tempo. Solo alcuni venditori hanno incrociato le braccia subito dopo la presentazione, e si sono rifiutati di accettare qualunque accordo che condannasse a morte il topo.
Inoltre, non tutti i gruppi si sono comportati allo stesso modo: è stato fatto anche un test d’intelligenza, e chi ha ricevuto un punteggio maggiore in esso si è riscontrato che ha avuto anche un comportamento morale più corretto. Ma queste differenze – come rivela l’interessante studio di economia comportamentale[4] di Falk – sbiadiscono di fronte all’osservazione che molti mettono da parte la morale quando possono risparmiare o guadagnare un po’ di soldi protetti dall’anonimato del mercato: se gli altri lo fanno, il peso della trasgressione sembra limitato, la violazione appare socialmente accettata, e il concetto di responsabilità diventa molto presto evanescente.
Chi di noi non è contro il lavoro minorile e il maltrattamento degli animali? Eppure, nel nostro ruolo di consumatori non ci poniamo domande, ignoriamo questi valori e comprano giocattoli di plastica economica o carne da allevamenti massivi nei discount, e non prestiamo attenzione al campanello d’allarme dell’etica. Ma se concetti come questi sono poco influenti nel nostro quotidiano di cittadini, perché allora dovrebbe prestarci attenzione un imprenditore, che ha nel mercato e nel guadagno il proprio faro?
Come dicevo, la risposta a questa domanda è – forse – nuovamente nella scienza. Adriano Olivetti – vero e proprio pioniere dell’impresa “sostenibile” aveva iniziato un percorso di analisi clinica con Cesare Musatti, di indirizzo freudiano, per proseguirlo poi con Ernst Bernhard, caposcuola degli junghiani in Italia. Entrambi questi psicoanalisti, di grande fama e indubbie capacità, ebbero un’influenza non trascurabile nell’indirizzare il pensiero di Olivetti, tanto che già nel lontano 1943 nacque il primo Centro specializzato in psicologia del lavoro, che divenne il più autorevole e innovativo riferimento per la psicologia industriale in Italia fino alla fine degli anni ’70. Da allora, molto si è scritto sul rapporto tra ambiente lavorativo e benessere psichico del singolo, anche se un campo che – come spiegavo nel mio saggio “Human Social Responibility” – è a tutt’oggi ancora poco esplorato da noi comunicatori e relatori pubblici è quello del rapporto tra introduzione di preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa, capacità di “creare futuro” da parte del singolo individuo, ed equilibrio psicologico suo e della comunità in cui vive.
Se è vero che esiste un ben preciso rapporto che lega le neuroscienze alla vita d’impresa, dovremmo ora essere pronti per un altro “salto quantico”. L’ipotesi di ricerca che seguo da anni è che – se è vero che siamo tutti, individui e aziende, parte di una rete sociale articolata – il livello di sanità mentale e di benessere di un gruppo umano non può prescindere dal grado di sanità mentale e di benessere del singolo, ed esso è a sua volta in strettissima correlazione con la sua capacità di immaginare scenari futuri, o – per dirla alla Michelin – di “costruire cattedrali”. Verifichiamo se – e in quale misura – è vero.
Anna Oliverio Ferraris, ricercatrice di grande esperienza, Professore alla Sapienza di Roma e autrice – tra le sue numerose pubblicazioni – del bel manuale “Le età della mente”, ci racconta come siano stati pubblicati a profusione studi sugli aspetti negativi e patologici dell’umore – depressioni, disturbi bipolari, psicosi, eccetera – mentre sono rarissimi quelli sugli stati “positivi”: tutta la tradizionale ricerca psicobiologica ruota intorno all’infelicità umana, mentre il tema della felicità e dei meccanismi che la generano – sia essa la felicità di un singolo che di un’intera comunità – sono da sempre sorprendentemente trascurati, quasi fossero vittima di una qualche preclusione ideologica: forse generata, ipotizza la Oliverio Ferraris, da una matrice per certi versi “utilitarista” della psicologia anglosassone, la quale prevede che la felicità sia frutto del mero raggiungimento di “obiettivi” e abbia quindi un‘origine prevalentemente “esterna” all’essere umano.
In realtà, le più recenti ricerche paiono dimostrarci che la genetica, le dinamiche neurochimiche e cerebrali e l’ambiente, sono variabili molto più strettamente interdipendenti di quanto fino a non troppo tempo fa si era ipotizzato. Autorevoli studi confermano che le persone ottimiste e tendenzialmente felici hanno una più elevata attività cerebrale nel lobo prefrontale sinistro, una zona della corteccia coinvolta negli stati umorali. Inoltre gli stessi studi confermano che i loro livelli di anticorpi sono sempre più elevati che non nei soggetti depressi o tristi, e che quindi i “creativi-ottimisti” riescono a resistere meglio agli attacchi esterni di batteri e virus. In definitiva, sono “più sani”, sia psicologicamente che fisicamente, quindi – tendenzialmente – vivranno più a lungo.
Il problema che si pone casomai è se tali manifestazioni delle funzioni cerebrali, differenti tra soggetti ottimisti, propensi a “creare futuro”, e soggetti pessimisti, per i quali “non c’è futuro”, siano la causa o l’effetto: una diversa attività dei neurotrasmettitori causa la felicità, o una persona in quanto felice ha una più elevata attività corticale? A questa domanda la psichiatria in tanti anni di ricerca non ha ancora saputo dare risposta, ma quella che è ormai indiscussa è invece la stretta correlazione tra piano fisico e piano mentale: gli ottimisti prestano più attenzione ai segnali positivi – sia concreti che immateriali – che provengono dall’ambiente che li circonda, e nel farsi influenzare dai fattori ambientali privilegiano questi ultimi, rispetto ai segnali negativi.
La psicobiologia ha dimostrato che alcune aree del sistema nervoso centrale esercitano un ruolo importante sugli stati umorali dell’individuo, che valuta la situazione in cui si trova, i messaggi provenienti dall’ambiente e le aspettative derivanti dai rapporti sociali e professionali, definendo poi ogni scenario in termini positivi o negativi, e reagendo con un differente grado di apprensione o di capacità di rispondere allo stress a seconda di una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano certamente il temperamento, i fattori cognitivi e l’interpretazione della realtà.
Tutti questi fattori sono indiscutibilmente condizionati anche dalla nostra esperienza: da quel bagaglio di sensazioni ed emozioni che costituiscono i mattoni con i quali “costruiamo” il nostro vissuto. Il cervello è infatti un organo estremamente plastico ed è impegnato in una continua metamorfosi, in un inarrestabile processo di ridefinizione, dall’infanzia alla vecchiaia: ad esempio, anche in un organismo adulto, la mappa somatosensoriale si modifica con riguardo ai vari cambiamenti di informazione provenienti dalla periferia e dall’esterno.
Emilia Costa, Professore emerito di Psichiatria dell’Università “La Sapienza” di Roma e ricercatrice di fama in Italia e nel mondo, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso simpatico e vegetativo – un tempo ritenuto “passivo esecutore” del sistema nervoso centrale, e successivamente invece riqualificato come un sistema interconnesso con il cervello e funzionalmente interdipendente, in grado di operare entro certi limiti anche in autonomia – raccoglie impulsi sensitivi dagli organi del corpo umano a contatto con l’ambiente, inclusi quegli stimoli che non raggiungono il livello discriminativo di coscienza. Questo sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psicoemotiva, garantendo un “controllo sulla risposta allo stimolo”, mediante un feedback basato sul rilascio e sul metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine e altri mediatori chimici.
Gli studi più recenti hanno recuperato mediante un modello di casualità circolare un messaggio d’integrazione tra i maggiori apparati che regolano gli equilibri all’interno dell’organismo e le sue relazioni con l’esterno: un’intensa e continua “immersione” in un ambiente ricco di stimoli positivi e costantemente proiettato a immaginare “scenari futuri”, nell’interesse della migliore sopravvivenza del maggior numero di stakeholders e quindi dell’intero pianeta – influenzerà le memorie semantiche dell’individuo, il mantenimento in buono stato delle quali è un efficace indice di controllo per verificare lo stato reale di invecchiamento di ogni persona.
A tutto ciò, è bene aggiungere altro, con riguardo agli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche: il nostro destino non è inciso solo nel Genoma, ma muta grazie alle buone o cattive abitudini. Ciò potrebbe significare che un’elevata propensione all’etica e al prendersi cura di ciò che ci circonda può entrare anche a far parte del nostro patrimonio genetico ereditario, e quindi essere trasmesso ai nostri figli?
Come ci spiega il giornalista scientifico Marco Pivato in un suo articolo[5], l’influenza dell’ambiente nello sviluppo della specie ha un peso ben superiore a quanto fino ad oggi si è sospettato. Il team guidato dallo svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute, ha cominciato a studiare[6] l’influenza degli stili di vita sul cervello in un campione di 12.000 individui, scoprendo che i comportamenti influiscono sulle istruzioni dei geni e, addirittura, su come questi possano essere ereditati: “Gli stili di vita – spiega il Professore – influenzano l’espressione genica, il destino non è del tutto scritto nei geni, ma dipende anche dalla “modulazione” dell’azione dei geni stessi. Pur possedendo solo circa 25.000 geni, il nostro Genoma è in grado di produrre centinaia di migliaia di proteine: ogni gene può in una certa misura “scegliere” quale proteina sintetizzare, “e la scelta – spiega Pivato nel suo articolo – dipende anche dai segnali chimici che il gene riceve dall’esterno, indotti proprio dagli stili di vita individuali”.
Il campione a disposizione di Bygren per i suoi studi era composto da individui selezionati per particolari attitudini alla lettura, interessi per la musica, il cinema, il teatro e la cultura in generale. L’esperimento ha individuato come queste attività culturali migliorino la salute del cervello e in ultima analisi l’organismo in generale, favorendo il processo mediante il quale le cellule staminali nelle aree del cervello primitivo si differenziano in nuovi neuroni, che a loro volta formano nuove sinapsi. Se infatti viviamo un evento negativamente emozionante, e quindi “stressante” per il cervello, l’ormone cortisolo media un processo che porta alla fortissima impressione di quell’evento nella memoria. “Ecco perché – semplifica il Professore – tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001…”.
L’effetto “anabolizzante” della “cultura” sul cervello può aumentare l’aspettativa di vita anche di decine d’anni: “La generazione di nuove sinapsi – continua Bygren – contrasta l’insorgenza del morbo di Alzheimer e aumenta in generale la capacità di gestire al meglio tutto il sistema nervoso periferico e quindi la funzionalità degli organi, mantenendoli in buona salute”.
In definitiva, aggiungo io, il cervello, proprio come un muscolo, se sollecitato in positivo ben conserva e potenzia le sue funzioni, e “costruire scenari futuri” prendendosi cura della società che ci circonda, integrando strategicamente preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa, è sicuramente un attività assai creativa.
Ma c’è altro: i cromosomi non sono l’unico veicolo per la trasmissione dei caratteri, e il Prof. Bygren lo spiega con una similitudine: “Le conseguenze della ‘fame da cibo’ si trasmettono con le stesse regole della ‘fame da cultura’. Le donne incinte che si alimentano correttamente trasmettono segnali chimici che favoriscono uno sviluppo virtuoso del feto così come quelle che si alimentano intellettualmente trasmettono segnali chimici utili allo sviluppo del sistema nervoso nella fase embrionale”.
Ma attenzione: proprio perché l’espressione genica è modulata dagli stili di vita, una volta al mondo, i geni “buoni” vanno coltivati altrimenti la loro espressione è inibita. Così, se parliamo di creatività e di cultura, la stimolazione cognitiva dev’essere promossa nel nascituro e perpetuata nella crescita e con l’avanzare dell’età, “affinché i geni che promuovono il differenziamento delle staminali in neuroni e sinapsi rimangano accesi”, riferisce il ricercatore.
Gli imprenditori realmente interessati al futuro della società della quale la loro azienda è parte integrante, è più facile che sviluppino strategie cognitive che consentono loro di ipotizzare e padroneggiare “da protagonisti” con estrema disinvoltura gli scenari futuri, aggiornando continuamente i propri schemi mentali, e questo – dai dati scientifici in nostro possesso – ha un ruolo nella loro capacità di risolvere problemi complessi e influenzare anche dimensioni, plasticità e funzionalità della loro mappa cerebrale, in un continuo stimolo virtuoso del rapporto esistente tra interazioni sociali, estensione dello spazio di controllo dell’individuo, intensità delle afferenze ambientali e strutturazione anatomico-biochimico-cerebrale. Come ci ricorda la Prof. Costa, infatti, “un ambiente ricco di stimolazioni positive fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali”.
Concludendo, questa disamina ci riporta direttamente al senso di un altro mio lavoro[7], laddove affermavo che persino i Veda indiani – scritti migliaia di anni fa –  indicavano tutti noi come parti di “un Uno unico, interdipendenti l’uno dall’altro”, connessi, al di la delle distanze, molto più strettamente di quanto si possa sospettare… Potremmo allora parlare – oggi più che mai, e con il conforto della scienza – dell’esistenza di una “suprema rete neurale”: la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
In definitiva, continuo a esserne convinto, “sintonizzarci” meglio, più armonicamente, più efficacemente, con questa rete neurale, mentre operiamo per creare scenari futuri positivi, non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro team lavorativo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un enorme puzzle – del pianeta intero.
Un paradigma ancora in buona parte da codificare, ma del quale possiamo facilmente intuire l’immenso potenziale in termini di rinnovamento creativo della nostra consapevolezza di comunicatori e relatori pubblici.
 
 
Breve bibliografia scientifica:

  • Bygren, L.O. et al; “Transgenerational response to nutrition, early life circumstances and longevity”, European Journal of Human Genetic, 2007
  • Bygren, L.O. et al; “Are variations in rates of attending cultural activities associated with population health in the United States?”, BMC Public Health 2007, 7:226
  • Ciarrochi, J., Forgas, J.P. Mayer, J.D., “Emotional intelligence in everyday life, Psychology Press, Taylor & Francis Group, 2001
  • Costa, E; “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento” – in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
  • Costa, E et al., “Dallo stress psicosociale alla malattia” – Psiche Donna – Vol. 4, n. 3, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003;
  • Costa, E; “La comunicazione efficace, ovvero il contrario del Brain Washing”– CIC Ed. Internazionali, Roma 2001;
  • Davidson R. J. et al, “Approach-withdrawall and Cerebral asymmetry: emotional expression and brain physiology”, in “Journal of Personality and Social Psychology” – 58(2), 1990, pag. 330-341;
  • Diener E., “Subjective well-being: the science of happiness and a proposal for a national Index”, in “American Psycologist” – 55, 2000, pag. 34-43;
  • Falk, Armin, “The Systematic Place of Moral in Markets Respons”, Science, 341, 714, 2013
  • Malvestito M.G., Costa, E; “Le politiche economico–aziendali di prevenzione e di contrasto” – in Prevenire il Mobbing – Giappichelli, Torino 2005;
  • Mecacci, L; “Industria e psicologia: Adriano Olivetti” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
  • Michelin, F; “La cattedrale di Michelin”, intervista pubblicata sul periodico Avvenire in data 23/04/2008 pag. 31, e ripubblicata sulla newsletter del sito Creatoridifuturo.it in data 23/02/09;
  • Murphy, K; “A Critique Of Emotional Intelligence”, Lawrence Erlbaum Associates, Publishers, London, 2004
  • Musatti C, et al., “Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilmenti Olivetti” – Einaudi, Torino 1980;
  • Oliverio Ferraris, A;“Le età della mente” – Edizioni BUR, Milano 2004;
  • Pizzoccaro, A; “La felicità interna lorda: dai paradigmi del XX secolo alla vera misura del benessere”, in “Etica anticirisi”, edito dal Centro Studi della Fondazione Banca Europa, 2009;
  • Poma, L; “Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR” – Ferpi News, 2009;
  • Poma, L; “Human Social Responsibility: una nuova prospettiva per la CSR”, Ferpi News, Milano, 2010
  • Pugno, M; “Economia, autonomia e benessere personale” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
  • Salovey, P, Sluyter, D.; “Emotional development and Emotional Intelligence: educational implications”, New York, Basic Books, 1997
  • Smith, A; “The Theory of Moral Sentiments”, Università di Glasgow, Regno Unito, 1759

[1]The Theory of Moral Sentiments”, Adam Smith, Università di Glasgow, Regno Unito, 1759
[2] “Human Social Responsibility: una nuova prospettiva per la CSR”, Ferpi News, Milano, 2010
[3] Was ist Ihnen das Leben dieses Maus wert?”, Die Zeit, Germania, 2013, traduzione in italiano su “Internazionale”, n. 1005, giugno 2013
[4] per approfondimenti divulgativi: http://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_comportamentale
[5] per approfondimenti divulgativi: http://it.wikipedia.org/wiki/Epigenetica
[6] “Il gene sente come vivi”, di Marco Pivato, Tuttoscienze, Editrice La Stampa, Torino, 2011
[7] Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholders alla rete neurale complessa”, Ferpi News, Milano, 2008

 

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