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Il Tribunale di Milano dà ragione alla Aon Global Emea, fra i leader mondiali del brokeraggio assicurativo: l’amministratore delegato creava profitti ma demotivava i colleghi e «prevaricava ruoli e competenze»

Fa palate di profitti, ma sul posto di lavoro è un decisionista-dittatore: e la sua multinazionale lo licenzia. Con il timbro del Tribunale del lavoro di Milano.

«Aon», uno dei leader mondiali del brokeraggio assicurativo facente capo alla società inglese Aon Plc quotata alla Borsa di New York, che l’ha assunto nel 2004 e promosso nel 2008 condirettore generale e nel 2012 amministratore delegato della filiale italiana, al top manager non contesta ruberie o perdite, anzi ascrive «alle sue riconosciute qualità» l’aver conseguito ottimi risultati economici e lusinghieri posizionamenti di mercato. Eppure lo licenzia «per giustificatezza». Con la motivazione che i profitti passerebbero in secondo piano rispetto al «clima inutilmente autoritario» instaurato in azienda, «demotivante», talvolta «prevaricatore di ruoli e competenze, tutt’altro che sereno e costruttivo».

E quando il manager fa ricorso, e anzi domanda al giudice di condannare la multinazionale a risarcirlo con 2 milioni e mezzo di danni, ecco ora il Tribunale del lavoro di Milano confermare invece la legittimità del suo licenziamento. Perché «l’attitudine ad assumere comportamenti prevaricatori, a “fare preferenze”, a bypassare arbitrariamente i responsabili di certe linee», insomma «una gestione manageriale di stampo quasi “familistico”», va «ben oltre l’ipotesi del “capo antipatico”, trattandosi invece della differenza tra autorevolezza e autoritarismo gratuito». E se il ruolo di amministratore delegato «implica certamente un ampio potere decisionale», per la giudice del lavoro Francesca Saioni l’esercizio di questo potere «non può sconfinare nella mera prevaricazione», che fa venir meno il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e giustifica il licenziamento «anche in ipotesi di insussistenza di qualunque danno patrimoniale».

Nella causa di lavoro che ha visto schierati megastudi legali su entrambi i fronti (gli avvocati Marcello Giustiniani, Vittorio Pomarici, Martino Ranieri e Tiffany D’Ottavio per lo studio Bonelli-Erede scelto dall’azienda, gli avvocati Paola Tradati e Andrea Gaboardi dello studio Gianni-Origoni-Grippo-Cappelli & Partners per conto del manager Uberto Ventura), il pomo della discordia è stato un complesso di iniziative rivendicate dall’amministratore delegato come impronta e matrice dei propri risultati: 25 nomine da lui decise ma secondo la multinazionale non concordate con il resto della struttura; privilegi (immotivati a detta dell’azienda) ai propri più stretti collaboratori sotto forma di aumenti di stipendio e progressioni di carriera e maggiori benefit aziendali; e, per converso, emarginazione o demansionamento di altri dirigenti ritenuti inefficienti.

Istruttivo, nel fotografare le rispettive posizioni, appare lo scambio di mail tra un superiore internazionale («Lei fa bene quasi tutto ma ha un approccio quasi dittatoriale che va smussato… dovrebbe creare più consenso… bastava poco perché fossero tutti contenti») e il manager licenziato: «Se le faccio le sintesi mi dice che non legge, se le dico le cose non se ne ricorda. Più di così non so cosa fare… Il suo punto di vista non è condivisibile… Speriamo che ci sia qualcuno che oltre alla contentezza di tutti si interessi anche alla mia, altrimenti ce ne faremo una ragione». Non si è invece fatto una ragione il tribunale, a detta del quale è legittimo il licenziamento del manager che, «a dispetto del suo ruolo apicale e strategico, non ha espresso una funzione equilibratrice, da collettore di consensi, provocando invece, con la sua gestione prevalentemente autoritaria, tensioni e fratture».

Il dirigente, che nelle prime fasi del licenziamento aveva ottenuto dal Garante della Privacy un provvedimento favorevole sulla lamentata «indebita intrusione nel dispositivo Black Berry aziendale» da parte della società, e che nel frattempo è già stato ingaggiato in un altro posto di lavoro, impugnerà in Appello la sentenza di primo grado sul licenziamento, a suo avviso frutto della volontà di una parte del management di «liberarsi di lui per poter tornare ad avere il pieno controllo».

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