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L’economista Stefano Zamagni, intervenuto al convegno annuale della B Corps italiane, analizza la storia dell’economia etica, spiegando perché in questa fase storica è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.


Il movimento delle B Corps è forse in questo momento l’impulso più forte, quello capace di spingere in modo definitivo il mondo economico verso un nuovo paradigma fondato sull’etica, sulla consapevolezza e sulla sostenibilità. In Italia in particolar modo.

ECONOMIA ETICA: UNA TRADIZIONE A NOI FAMILIARE

Non a caso il nostro paese è il secondo al mondo ad avere istituito un quadro normativo che regola questo settore, dopo gli Stati Uniti – la prima legge in merito è stata approvata nel 2010 da Maryland e Delaware. Ma è anche il secondo, sempre dopo gli USA, per numero di B Corps presenti sul proprio territorio.
Perché allora lungo tutto il percorso formativo e accademico che affrontano, i nostri giovani non si imbattono praticamente mai nell’economia etica? Perché ancora oggi il discorso delle B Corps in Italia non è ancora arrivato alla base, non circola e soprattutto non è ancora entrato nelle università, a parte alcune lodevoli eccezioni? Perchè le B Corps non sono ancora oggetto del curriculum di studi delle facoltà economiche?
Se lo chiede l’economista e docente Stefano Zamagni, sottolineando un ricorso storico interessante e significativo: “È stata la società civile ad anticipare quello che l’università avrebbe dovuto fare e in passato è stato sempre così. Recentemente sono stato alla Bocconi e gli studenti del corso di management non sapevano nulla di B Corps”.
Eppure questo movimento rappresenta un ritorno all’antico, poiché fino all’inizio del ’900 tutte le imprese avevano una funzione pubblica. “La tradizione aziendalistica italiana – spiega Zamagni – vede l’impresa come un soggetto privato che svolge funzioni di natura pubblica”.
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L’IMPRESA PERDE LA SUA FUNZIONE SOCIALE

Tutto cambia quando un saggio di economia pubblicato negli anni ’30 sancì la scissione fra la proprietà (azionisti) e il controllo (management). Gli interessi non erano più sociali, ma privatistici. “Lì comincia una nuova stagione che vede l’impresa come una merce – the firm as a commodity –, che come tale può essere comprata e venduta a seconda delle convenienze del momento”.
Nel 1976 due economisti americani oggi screditati, Jensen e Meckling, elaborano un modello in base al quale il fine dell’impresa è di massimizzare il profitto. A questa lettura si accoda anche Milton Friedman, che dice che alla fine anche la società ne trae un vantaggio. Questa teoria diventa egemone e viene insegnata nelle università di tutto il mondo.
Ed eccoci arrivati a un altro spartiacque: la grande recessione del 2008. Spiega Zamagni: “La crisi ci ha detto che quel modello è sbagliato. Da allora in America, dove c’è una cultura molto pragmatica, le cose hanno iniziato a cambiare. Dopo tre anni di recessione hanno cominciato a delinearsi le prime B Corps: c’era voluto un disastro economico, ma gli americani avevano capito che il fine primario dell’impresa non è la massimizzazione del profitto”.
Un ulteriore impulso arriva nel 2011 grazie all’intervento di altri due economisti, Porter e Kramer. Secondo loro il sistema capitalistico è sotto assedio e le imprese vengono viste sempre più come cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. La legittimazione del business è scesa a livelli senza precedenti. Le imprese devono riconciliare business e società, successo economico progresso sociale. Devono mettere al centro i valori collettivi.
Zamagni prosegue raccontando un aneddoto significativo: “La vicenda di Ford e dei fratelli Dodge insegna: i Dodge erano azionisti di minoranza di Ford e quando quest’ultimo iniziò a praticare il welfare aziendale loro lo portarono in tribunale accusandolo di aver sottratto i profitti che spettavano agli azionisti per finanziare la sua politica aziendale. La corte del Michigan diede ragione ai Dodge creando un precedente fondamentale”.
Cosa insegna questa storia? “Ci dice che è fondamentale istituire un quadro normativo che disciplini l’economia etica”, spiega Zamagni. “Le cooperative ad esempio non hanno questo problema, ma le aziende normali, senza la legge del 2015 che istituisce le società benefit, avrebbero potuto incappare negli stessi inconvenienti con cui si dovette misurare Ford a suo tempo”.
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COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA?

L’idea che sta alla base delle B Corps riprende un pensiero che ha radici antiche e a noi familiari. “La figura dell’impresa moderna è nata in Italia, così come tante novità in ambito economico e finanziario. Ma noi italiani non le abbiamo mai valorizzate, rinunciando a innovare. Siamo creativi, ma non siamo capaci di tradurre l’invenzione in operatività”.
Già nel 1400 esisteva la moderna impresa: Leonardo da Vinci fu il primo teorico e pratico dell’organizzazione d’impresa. Il suo modello all’estero viene chiamato “bottega leonardesca” e rappresenta il nucleo dell’organizzazione d’impresa condiviso anche dalle B Corps. Ecco perché per noi italiani questo movimento è particolarmente significativo.
Ma perché oggi abbiamo particolarmente bisogno che in Italia si diffondano le B Corps? Risponde Zamagni: “Perché stiamo attraversando una fase nota come seconda grande trasformazione di tipo polaniano, ovvero riferita a Karl Polanyi, che nel 1974 parlò della prima grande trasformazione, nell’ambito della quale raccontò le due grandi rivoluzioni industriali”.
Oggi viviamo una stagione altrettanto straordinaria, poiché siamo nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale. E si può dimostrare che in questa transizione in modello B Corps è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
“È una tesi forte ma perfettamente dimostrabile”, prosegue Zamagni. “Sappiamo che il modello taylorista non funziona più, sostituito da quello olocratico teorizzato nel 2007 da Brian Robertson. Questo modello è il contrario di quello taylorista ed è una prefigurazione a livello giuridico della società benefit. Abbiamo bisogno che il numero di queste società aumenti perché così possiamo estendere l’applicabilità del modello olocratico, che garantisce risultati straordinari come la massimizzazione del profitto, molto più del modello only for profit”.
La storia economica stessa sostiene questa tesi. Fino al 1980 la produttività totale dei fattori dell’Italia era superiore a quella della Germania. Con la terza e quarta rivoluzione industriale siamo andati incontro a un forte declino perché non abbiamo adeguato il modello organizzativo. Secondo Stefano Zamagni dunque dobbiamo modificare l’assetto esistente, ne abbiamo un gran bisogno.
 

 L’IMPRESA COME MOTORE DEL CAMBIAMENTO

“Le valutazioni delle performance delle imprese sono di tre tipi: output, outcome e impatto. Misurano rispettivamente l’efficienza, l’efficacia (quanto l’operatività raggiunge i fini dichiarati) e il cambiamento. Il punto è qui: oltre alla valutazione di output (bilancio di esercizio) e di outcome (misurata nel bilancio sociale), la società benefit si spinge al terzo livello, che consiste nella valutazione dell’impatto sociale, ovvero la misurazione del cambiamento. Misurare questo cambiamento è ciò che distingue le performance delle società benefit, poiché le società convenzionali non possono per natura arrivare alla valutazione d’impatto, di cui noi abbiamo invece un gran bisogno, soprattutto se si parla di degrado ambientale”.
Ecco dunque che, pur continuando a perseguire un legittimo profitto, l’impresa recupera la sua funzione sociale e genera benessere – economico, ma non solo – per tutta la comunità. Ma, come spiegato, solo le B Corps, società benefit e altri modelli imprenditoriali etici hanno questa capacità.
Zamagni conclude citando il monaco americano Tomas Merton, che nell’epilogo del suo Nessun uomo è un’isola dice: “Il tempo galoppa e la vita ci sfugge fra le mani, ma ci può sfuggire come sabbia o come semente. Se ci sfugge come sabbia cadendo al suolo non produce nulla, ma il seme produce sempre qualcosa. A noi la scelta”.

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