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I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato (i bond subordinati), e questo è successo soltanto in Italia, così Stefano Feltri su Il Fatto riferendo le dichiarazioni del commissario UE alla concorrenza la danese Margrethe Vestage.
Parto da qui per sottolineare che il mercato bancario e finanziario italiano è solo una minuscola componente di un sistema globale… che –nel suo insieme- sfugge a qualsiasi, anche la più benevola, interpretazione del termine  inglese ‘accountability’ e nessuno lo sa meglio delle persone che oggi sono qui.
Non è certo casuale che solo poche settimane fa a Davos, alla presentazione del Trust Meltdown Report VII – 2016, si è appreso che l’industria bancaria globale, nonostante la sua ripresa ‘reale’ avviata già nel 2014 e 2015, ha invece in questi ultimi anni, e di parecchio, peggiorato il proprio rating intangibile e reputazionale.
Secondo l’analisi di Media Tenor International, il sistema globale dei media trasmette oggi del sistema bancario una reputazione peggiore –nell’ordine- di quella dell’ISIS, dell’industria della droga, delle armi, del tabacco e della farmaceutica…
Sicuramente non possiamo trascurare che la reputazione del sistema bancario italiano nel nostro Paese risente anche di questo, ma – come abbiamo già indicato prima citando Feltri – l’Italia ha anche le sue specificità.
Parliamo allora di reputazione, di come la si valuta e di come -se solo ne fossero consapevoli- Consob e Banca d’Italia potrebbero ‘pungolare’ (inteso come ‘nudging’… e ne approfitto per informarvi che la prossima settimana a Bruxelles (http://www.eesc.europa.eu/?i=portal.fr.events-and-activities-nudge-thinking)  la Commissione Europea (honny soi qui mal y pense) tiene il suo primo symposio/colloquio ufficiale sul nudging (inaugurato da Obama già a conclusione del primo mandato, poi recentemente assunto a dogma da Cameron e per ora soltanto ‘sognato’ dal nostro Renzi)… la pratica comunicativa che interpreta la reputazione anche come strumento di controllo sociale.
Per prima cosa, la reputazione di una organizzazione è ben diversa dalla identità, o dalla immagine.

  • L’identità è l’insieme dei fondamentali di un soggetto (storia, missione, visione, strategia, valori guida: epigenetica)
  • L’immagine è quello che gli altri ‘percepiscono’ del soggetto sia attraverso l’esperienza diretta che la sua comunicazione
  • La reputazione invece è ciò che gli altri dicono agli altri dell’organizzazione.

L’implicazione è che la reputazione è un giudizio, seppur mutabile, ma relativamente consolidato: al punto che le persone si sentono libere di esprimere quel giudizio con gli altri sapendo però di mettere in gioco anche  la propria reputazione.
E’ dai primi anni novanta del secolo scorso che gli studiosi del management e della comunicazione organizzativa dibattono la complementarietà o la contrapposizione fra la scuola delle relazioni e quella della reputazione, e il dibattito continua.
Negli anni ho maturato la convinzione – grazie anche a esperienze concrete, professionali, sul campo – che la comunicazione è sì un importante strumento a diposizione dell’ organizzazione, ma lo è sopratutto se contribuisce a creare relazioni con gli stakeholder (soggetti consapevoli, interessati e influenti sul raggiungimento degli obiettivi che persegue).
Va da sé che relazioni efficaci con gli stakeholder rafforzano la reputazione dell’organizzazione.
E’ raro, infatti, osservare organizzazioni di buona reputazione prescindere dal tentativo di governare con sagacia le relazioni con gli stakeholder orientandole al dialogo e al coinvolgimento attivo (bridging). Mentre può accadere che organizzazioni di scarsa, o cattiva o  inconsapevole reputazione investano per lo più in attività tattiche di comunicazione orientate alla propria difesa (buffering).
E’ certo possibile monitorare la reputazione, individuandone anche i punti deboli e forti, ed è certo possibile operare per migliorarla, ma non è possibile gestirla perché la reputazione la determinano gli stakeholder.
In questa prospettiva sono proprio le relazioni che vanno migliorate, e queste non solo si possono monitorare e valutare, ma anche gestire.
Gli indicatori che si usano per valutare l’efficacia delle relazioni sono perlomeno quattro:

  1. la soddisfazione nella relazione,
  2. l’impegno nella relazione,
  3. la fiducia nella relazione,
  4. l’equilibrio di potere nella relazione.

In situazioni specifiche si possono anche considerare l’attrazione’, la necessità e l’intensità come ulteriori variabili. La prima e la terza intese come forze emotive che connettono i soggetti della relazione e la seconda intesa come reciproca interdipendenza.
La rilevazione presso gli stakeholder di questi indicatori (da 1 a 10, o da 1 a 100, o con altre scale) consente all’organizzazione non solo di valutare il punto di partenza, ma anche di decidere, per un certo periodo e a fronte di determinati investimenti di tempo e di risorse, obiettivi specifici di miglioramento da raggiungere e poi verificare se siano stati raggiunti.
Rispetto invece allo specifico della reputazione vi sono altri indicatori di valutazione e i più aggiornati sono le sette dimensioni del Reputation Institute e riferite alla specifica organizzazione:

  • qualità del prodotto/servizio,
  • qualità della sua innovazione,
  • qualità del luogo di lavoro,
  • qualità della sua governance,
  • qualità della sua responsabilità sociale,
  • qualità della sua direzione e
  • qualità della sua performance.

E’ quindi essenziale per prima cosa selezionare con accuratezza gli stakeholder veri (consapevoli, interessati e influenti nel sostenere oppure ostacolare gli obiettivi dell’organizzazione, e quindi verosimilmente in grado di valutare le variabili).
Può la reputazione di una organizzazione rappresentare – dal punto di vista dell’interesse pubblico e di quello dei pubblici interessati e consapevoli (stakeholder) – una forma di ‘controllo sociale’ dell’organizzazione?
E’ una domanda importante in un mondo dove il capitale sociale appare in via di estinzione, ma dove si potrebbe fare molto interpretando la resilienza e i suoi relativi ‘rimbalzi’ come nuova forma di capitale sociale basata sulla qualità delle relazioni fra i soggetti attori di un qualsiasi mercato o spazio.
Un inconsapevole e sostanzioso ‘assist’ è  venuto dalla recente intervista a Repubblica del direttore generale della Banca d’Italia dove, riferendosi alla propria comunicazione dice, testuale:

Qui si poteva fare meglio, ed è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni, incluse quelle politiche. Nella nostra storia di Banca d’Italia, la riservatezza totale era un valore fondante, come per il resto delle banche centrali. Poi il mondo è cambiato, siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata. Venendo però da un mondo di quel tipo ed essendo ancora vincolati al segreto d’ufficio e istruttorio a volte incontriamo difficoltà. La comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa. Stiamo imparando”.

Prendendola alla lettera, si potrebbe dire che la reputazione (quel giudizio che gli altri esprimono di te quando non ci sei) del sistema bancario presso i suoi stakeholder sia negativa anche perché ‘il mondo è cambiato e siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata’.
Si aggiunga che le reputazioni di Bankitalia e Consob oggi  traballano anche perché sono pessime le reputazioni dei singoli istituti bancari che i due sono chiamati a vigilare. Se, come ha argutamente detto qualche giorno fa a la Stampa l’ex Ministro Vincenzo Visco evocando ‘la cattura del vigilante da parte del vigilante’, è scontato che il controllore sia sempre influenzato dai controllati e viceversa. Ulteriore preziosa e utile distinzione è quella, sempre di Visco, sul diverso ruolo di Bankitalia (tutelare la stabilità del sistema) e Consob (assicurare la trasparenza del mercato).
Se poi analizziamo con gli stessi criteri i recentissimi discorsi del Presidente della Consob prima e dopo la trasmissione di Milena Gabanelli e i successivi commenti critici anche di esponenti autorevoli del Governo, possiamo concludere che, pur sapendo che i poteri reali della Banca d’Italia e della Consob sono ormai molto limitati, fra questi rimane sicuramente da esercitare, se solo lo si volesse, la facoltà di ‘nudging’, inteso qui come potere di ‘pungolare’ i singoli istituti bancari, grandi e piccoli -promettendo premi e minacciando punizioni ai cda in base alle loro dinamiche reputazionali valutate secondo indicatori e criteri ormai validati e consolidati in tutto il mondo.
In questo senso si può parlare, credo, di ruolo sociale della reputazione e di quest’ultima come componente del ‘capitale sociale’ di una nazione, di un territorio, di una istituzione, di una banca, di un gruppo dirigente, di un insieme di persone che ci lavorano. Un capitale monitorabile e valutabile come valore, sia aggiunto che sottratto.

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