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La “blitzkrieg” della comunicazione
Eravamo in acqua, fisicamente “a mollo”: normalmente le idee migliori mi vengono al mare. Quando lo dico ai miei discenti, mi prendono per pazzo o pensano ad uno scherzo, ma chi davvero mi teme sono invece i collaboratori: ne intrappolo uno a turno ogni anno, trascinandolo in vacanza d’estate o a capodanno, per poi puntualmente parlare di lavoro. Ogni volta sperano di poter “staccare”, ricaricare le batterie e star tranquilli per qualche giorno, ed ogni volta invece si ritrovano a creare con me. È che ho bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che quando inizio a costruire un progetto mi conforti in tempo reale e con obiettività sulla direzione che ho preso. Poi si aggiunge idea ad idea, si aggiusta la rotta, piano piano, e ciò che viene fuori spesso è interessante.
Stavamo in acqua, dicevo, a parlare di ombrelloni. Quelli con la pubblicità sopra, the Lipton o gelati Algida. In fondo sono un medium anche quelli… ma qual è il ritorno? Qualcuno li guarda? Ed i cartelloni per strada, quelli con scritto Mobilificio La Credenza? Ce ne sono centinaia di migliaia per le statali di tutta Italia: orienteranno i consumi di qualche agricoltore di zona, ma valgono la spesa? Eppure… E la TV in prima serata? Io puntualmente cambio canale quando arriva la pubblicità, se lo sapesse qualche amico industriale che ha investito milioni di euro per una serie di “inutili spot 30 secondi”… ma quanti consumatori evoluti sono pronti a giurare che sceglierebbero un oggetto od un marchio solo grazie ad uno spot in TV?
L’advertising tradizionale – come l’abbiamo inteso negli ultimi 40 anni – funziona ancora, ma i dati confermano che per le concessionarie di pubblicità sono finiti i tempi d’oro, che gli sconti aumentano per invogliare gli inserzionisti, e che i centri media “stentano”. A fronte di un investimento in televisione negli ultimi 5 anni costante rispetto al budget complessivo per la pubblicità – percentuale che va dal 54% del budget pubblicitario del gruppo FIAT al 96% del gruppo Perfetti – i 12 big-spender italiani hanno visto calare gradatamente – ed ormai pare inesorabilmente – il proprio ritorno in vendite. La pubblicità televisiva è per definizione mono-direzionale ed offre informazioni all’utente quasi sempre non richieste, e solo molto marginalmente di suo specifico interesse: questa – semplificando – è la ragione per la quale le percentuali di redemption sono in costante calo e la pubblicità massiva pare sempre meno efficace, meno coinvolgente, meno capace di persuadere.
Nelle bellissime pagine di “White Space”, dove Arianna Brioschi ed Anna Uslenghi analizzano il mercato delle strategie di comunicazione non convenzionale, le autrici riportano dati di istituti di ricerca specializzati come Millward Brown che dimostrano che per mantenere gli stessi livelli di “ricordo” le aziende devono continuamente investire più risorse rispetto al periodo precedente. La parola d’ordine pare essere diventata “budget pubblicitari TV uguali all’anno scorso = minori risultati”, con il settore marketing che chiede all’amministrazione ogni anno risorse più significative, ed una pressione sempre più forte sui creativi per inventare spot più efficaci. Dove ci porterà tutto ciò? E – non disponendo di budget illimitati – quando collasserà il sistema?
Più che di rivoluzione (collasso dei tessuti) parlerei però di riforma (rigenerazione dei tessuti): ascoltando le chiacchere nei coffee-break, a margine dei convegni di settore, è di tutta evidenza che non tutti se ne sono già accorti, ma siamo già dentro a quella che non esiterei a definire “la seconda guerra mondiale della comunicazione”. La creatività, l’innovazione, la ricerca di feedback efficaci da nuovi media, su nuovi canali, sta ridisegnando i confini dell’advertising: chi si ostina a puntare solo sulla “quantità di spazi occupati” è condannato a restare nell’ancienne regime della comunicazione, come i vecchi parrucconi di fine ‘700 che – mentre già il boia oliava la mannaia – sprecavano il poco fiato che gli rimaneva per cercare di convincere il popolo che nulla doveva cambiare e che il loro rassicurante modello era l’unico possibile e percorribile. Questi sono gli agenti delle principali concessionarie di pubblicità della TV e della carta stampata…
Chi invece ha il coraggio di scommettere su nuovi percorsi, di inaugurare nuove strade, di percepire trend innovativi, è destinato ad accumulare in questi anni cruciali un prezioso vantaggio competitivo. Parlo di seconda guerra mondiale della comunicazione non a caso: il 1939 fu il passaggio dalla “guerra di posizione” alla “guerra di movimento”, la blitzkrieg, la guerra lampo, esattamente come oggi i più illuminati stanno passando dalla pianificazione massiva degli investimenti pubblicitari “un tanto al chilo” su televisioni e giornali, alla ricerca dell’innovazione e della qualità, di stile, di metodo e di canale. Non più mera “occupazione di spazio” (più investo, più compro spazi pubblicitari, più i negozianti mi mettono in evidenza sui banconi, più vendo, più guadagno) ma un media-mix diverso, che la Brioschi e la Uslenghi – ed altri prima di loro – definiscono con parole come “Turbo Media”, ovvero un insieme di tecniche di comunicazione che rispondono alla crescente diminuzione d’efficacia dell’advertising tradizionale, agendo come acceleratore e moltiplicatore di risultati.
Il colosso dei cellulari Nokia – pochi addetti ai lavori ne hanno parlato – ha già dato un’eccellente prova di se su questo tema. Il Nokia Research Center di Espoo, in Finlandia, in stretta collaborazione con il Nanoscience Center di Cambridge, ha depositato una serie di brevetti di nanotecnologia per il telefonino di nuova generazione “Morph”: l’oggetto, che è ancora a livello sperimentale, è spesso poco più di una carta di credito, si può mettere al polso come un braccialetto, è idrorepellente, si autopulisce dalla polvere e dallo sporco, e si adatta come un camaleonte al colore degli abiti che avete addosso. Nokia ha postato un video che descrive il prodotto su Youtube, che – tra la versione lunga e quella breve – è stato visto ad oggi da quasi 5 milioni di utenti e  potenziali clienti. Il tutto senza ancora aver speso un centesimo in pubblicità sui media tradizionali!
Tra gli esperti di comunicazione creativa è anche noto il caso recente di Reefjob.com, il maxi concorso lanciato on-line dal Ministero del Turismo australiano: chi vuole diventare il guardiano di un’isola nel Pacifico? Spiagge bianche e mari incontaminati, sorvegliare le tartarughe e le balene, unico obbligo fare foto e tenere un blog su internet, il tutto per 10.000 dollari al mese di stipendio per 1 anno. Figuratevi la mole di richieste, centinaia di migliaia di candidati, 35.000 preselezionati, primarie on-line per scremare i curricola, ed infine proclamato il vincitore, che a giugno 2009 ha preso possesso dell’atollo. Inutile dire che l’originale iniziativa è stata ripresa da pressoché tutte le TV e giornali del mondo, anche nei TG della sera. Un’agenzia indipendente ha verificato che l’impatto sui media convenzionali di quest’iniziativa di comunicazione non convenzionale è stato pari ad una campagna di advertising TV da oltre 70 milioni di dollari. Costo totale dell’operazione: poco più di 500.000 dollari.
Per contro, le “primarie dell’auto” lanciate l’anno scorso da Mercedes (Tu cliente, scegli la migliore proposta ecosostenibile per il prossimo modello della casa di Stoccarda, con tanto di road-show di presentazione dell’iniziativa nelle piazze delle città) sono state a mio avviso un fiasco, con così pochi post sullo spazio Facebook aperto per l’occasione da rasentare l’imbarazzo, ed il successo di operazioni di comunicazione non convenzionale come quello di Coca-Cola, che ha mandato i furgoni in giro per l’Italia invitando la gente a salire, guardare 3 spot pubblicitari, e votare quello migliore, per poi mandare in onda in TV il più gradito dei 3, ha avuto una forte efficacia riconosciuta e misurata, ma solo sul limitato numero di persone coinvolte direttamente nelle piazze, laddove il mezzo televisivo permette invece di raggiungere – ancorché in modo indifferenziato – milioni  e milioni di persone, e garantire quindi una redemption in termini d’affezione alla marca piuttosto bassa in percentuale, ma in ogni caso elevata come numeri assoluti.
Allora vorrei andare oltre, riallacciandomi al concetto stesso di mass-media, ovvero comunicazione indifferenziata. Penso sia arrivato il momento di mettere in discussione nel profondo questo paradigma vecchio di un secolo, per il semplice fatto che – in principio – non siamo per nulla “utenti indifferenziati”, e quindi siamo sempre meno disponibili ad accettare messaggi e sollecitazioni indifferenziate. La domanda che continuava a ronzare in testa a me ed al mio collaboratore mentre eravamo a mollo al mare è: “se la TV ridimensiona il proprio indice di efficacia, e per contro non sempre internet funziona, se i cartelloni per strada non li guarda più nessuno, ma la radio riscopre la propria freschezza in una vera e propria “seconda giovinezza” ad un secolo dalla sua invenzione… quale diavolo è la ricetta vincente?”.
Il punto è che proprio la tentazione dell’iper-semplificazione è la rovina di ogni buon pianificatore: il pretendere di utilizzare procedure mentali rigide per governare scenari sempre più fluidi. Forse la logica fuzzy potrebbe venirci in soccorso, e per quella rimando alla lettura del mio saggio “Reti neurali complesse”, ma anche senza voler scomodare il Prof. Lotfi Zadeh dell’Università di Berkeley, vorrei sollecitare la vostra attenzione su questo concetto, questo momento di passaggio dai mass-media a quelli che potrei definire “tailored-media”: una strategia sartoriale e ragionata, mai buona per tutte le stagioni, ed adeguata ad intercettare quel tipo di consumatore. “Personalmente, io che tipo di consumatore sono?”, mi sono chiesto mentre sguazzavo a bordo riva: non calcolo minimamente gli stimoli della televisione, perché li trovo fastidiosi e non richiesti, come peraltro i pop-up su internet che si aprono automaticamente quando vai su qualche sito (maledetti, la crocetta per richiuderli la fanno sempre più piccola ed invisibile!), ma posso rimanere colpito favorevolmente dalla creatività di una qualche pubblicità innovativa sulla carta stampata, e soprattutto scelgo il mio marchio anche sulla base delle azioni di responsabilità sociale (non greenwashing, ma progetti davvero sentiti e partecipati!) dell’azienda dalla quale voglio acquistare qualcosa. Mi piaciuto molto, ad esempio, leggere quasi per caso negli atti (cartacei, peraltro) di un convegno, dello staff dei negozi Media Word, impegnato – proprio loro, i commessi in camice! – a registrare in sala d’incisione un CD musicale che poi hanno venduto – sempre loro: “lo vuole comprare il mio CD?” – nei punti vendita raccogliendo centinaia di migliaia di euro per sostenere una casa di accoglienza per bambini e donne vittime di abusi nelle baraccopoli di Città del capo, una delle città più violente al mondo, progetto questo di Città del Capo scelto tra molti sempre dai dipendenti Media Word, che lo sentivano “più loro”. Credetemi, ora guardo questi ragazzi con più simpatia, e sicuramente – dovendo comprare qualche carabattola elettronica – sceglierò loro e non UniEuro, anche perché con i prezzi largo-circa plafonati ed un’offerta in larga parte indifferenziata, sono a caccia di emozioni e di passione ancor prima che di 10 euro di sconto convenienza.
Ed ognuno avrà il suo, di medium preferito, o meglio: ogni potenziale cliente – o community di clienti – sarà intercettabile mediante un giusto mix di media, sulla base di una relazione quasi “ad personam” che l’azienda deve cercare di instaurare con l’acquirente. Mi scappa da ridere dinnanzi a coloro che hanno il coraggio di definire – dal punto di vista dell’advertising – “una nicchia” gli utenti dei web social network: vero che c’è il digital divide, e che internet non è ancora in tutte le case come mezzo comune di comunicazione quotidiana – ma, solo fermandoci a Facebook, sono 250 i milioni di persone iscritte a quella piattaforma… alla faccia della nicchia! Diciamo piuttosto che troppo spesso si cerca di ridimensionare ciò che non si capisce.
Internet sta rivoluzionando il rapporto tra azienda, dipendenti dell’azienda e clienti, e – come ci ricorda Beppe Facchetti nel suo bel manuale “Relazioni Pubbliche”, “l’azienda non può più sottrarsi alla comunicazione con l’utente: i tempi dei monologhi sono finiti”. Giampaolo Fabris nelle sue ricerche ha ben definito questo nuovo scenario: “il modello di comunicazione non può più essere solo quello unilaterale e passivo del broadcast televisivo, ma diventa quello – meno governabile – dell’agorà, nel senso antico del termine. Le aziende devono uscire dalla dimensione del sito internet-brochure, perché i mercati sono diventati ‘conversazioni’, e chi non lo capisce per tempo è condannato all’emarginazione”. La democrazia della rete sta “contagiando” relazioni pubbliche, marketing e comunicazione: nel negozio Nike di Oxford Circus a Londra sono i clienti che fisicamente intervengono nella personalizzazione del prodotto, affiancando i tecnici di laboratorio del colosso delle snakers. Volete i nostri soldi – paiono dire i clienti – allora dateci perlomeno la vostra massima attenzione, come ci ricorda il “Cluetrain Manifesto” sulla comunicazione on-line, elaborato da 4 esperti americani di marketing nel 1999 ed oggi più che mai d’attualità.
Allora cerchiamo di sollecitare le aziende clienti a passare dal concetto di leader di mercato a quello di leader d’opinione, e comprendere che il tempo dello spot del detersivo uguale per tutti che ci invade il tinello di casa con il volume più alto del film per farsi sentire sta iniziando a tramontare, perlomeno come unico canale di dialogo con il cliente. Non dobbiamo più “fare pubblicità”, ovvero cacciare i soldi al centro media per comprare manciate di secondi o centimetri di spazio sulla carta che poi qualche creativo si occuperà di riempire con qualche spot più o meno ben riuscito, ma dobbiamo raccontare una storia. Su quanti più canali possibili. In modo coordinato, perché uno non deve mai escludere l’altro, e possibilmente anche armoniosamente. Un approccio “sartoriale” al nostro interlocutore, un binario lungo il quale trasmettere frammenti del nostro DNA aziendale, della passione che ci anima e che è il solo ed unico fattore che può realmente fidelizzare un cliente per la vita.
La gente vuole sentirsi unica: facciamola sentire importante. Perché lo è: da essa, da ciò che pensa del marchio del nostro cliente, dai giudizi che esprime agli amici e poi posta sui forum di discussione in internet, dipende oramai il successo o l’insuccesso di qualunque prodotto, e queste variabili – in grado di influenzare tangibilmente e velocemente l’indice reputazionale delle piccole aziende come dei grandi gruppi – sono dannatamente importanti. Rieccoci quindi alla cara vecchia CSR, la responsabilità sociale d’impresa svincolata dalla dimensione meramente filantropica: il capire chi siamo, quali sono i nostri valori, dove vogliamo arrivare, e soprattutto il comprendere come spiegarlo al meglio, come farlo comprendere ai nostri stakeholder, primo tra tutti lo stakeholder clienti potenziali, utilizzando media convenzionali con modalità innovative, ed integrandoli intelligentemente con media non convenzionali.
Tailored-media, appunto, ovvero un modo differente di pensare alla comunicazione e d’intendere il rapporto con il cliente, passando dal voler essere a tutti i costi interessanti, allo sforzo d’essere interessati a coloro che ci circondano.
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