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Di Luca Poma
Wilde ne faceva – provocatoriamente, e solo apparentemente – quasi uno stile di vita; Warhol la attribuiva fieramente a sé stesso, senza timori; Calvino ci teneva a distinguerla dalla leggerezza, che era tutt’altra cosa; Longanesi, che giudicava tutto dall’abito, ne rivendicava il coraggio intrinseco; Solgenitsin la definiva “la malattia psichica del XX secolo”.
Qualunque cosa pensiate voi, ora, della superficialità, pare essere questa la “cifra” che ha dato colore a questo caso; che affronto solo ora, a distanza di due settimane, a giochi fatti e bocce ferme, per un’analisi che vuole essere volutamente distante dalla frenetica e fatua eccitazione del dibattito “social”.
Per chi come me ha la memoria del pesce rosso, ecco un riassunto dell’accaduto: Intesa Sanpaolo – si scoprirà solo con giorni di ritardo – chiede ai dipendenti di girare dei video, una specie di contest con finalità di team-building. La provocazione è la seguente: spezzate, come credete, la monotonia del lavoro quotidiano, e raccontate qualcosa di voi, anche se non siete dei professionisti della telecamera, e i video più folli verranno proiettati durante le prossime convention aziendali. Una cosa da ridere, insomma; ma ridere tra noi (tra loro), in casa, non certamente in rete, con milioni di occhi puntati addosso. Già, come se Intesa fosse padrona della rete, e potesse decidere cosa va online e cosa no; ma di questo parleremo più avanti.
Katia Ghirardi, la direttrice della filiale Intesa di Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova, realizza un video amatoriale che sfocia – forse volutamente, ironicamente, provocatoriamente – nel grottesco. Non ha esperienza con la telecamera, appunto, e ha quell’aria un po’ goffa e decisamente troppo sopra le righe che la rende davvero comica. Qualche collega sadico fa girare il video, e di Whatsapp in Whatsapp la “performance” tracima e finisce su internet: prima Facebook, poi Youtube, infine i mass-media mainstream; tanti, mass-media.
In un paio di giorni, la povera Katia – che nel frattempo oscura il proprio personale profilo Facebook perché inondata da critiche e anche da insulti – diventa il caso della settimana: tutti, ma proprio tutti, osservano, valutano, giudicano, inclusi colleghi ed esperti, veri o presunti, al grido di “Ecco cosa accade se non hai un bravo Social Media Manager”. A peggiorare il tutto, la registrazione di una telefonata, che diventa subito anch’essa virale, di un correntista che chiama la Filiale per complimentarsi per il video, e riceve un riscontro dalla telefonista di Banca Intesa tra l’impacciato e il fortemente imbarazzato, del tipo “non mi pare ci sia proprio nulla di che complimentarsi”, a conferma – semmai fosse stato necessario – che non tutti all’interno della banca hanno approvato l’iniziativa della Ghirardi.
Poi la svolta, diametralmente opposta, quando emerge la sopracitata verità, ovvero che non si trattava – come un occhio attento avrebbe compreso fin dall’inizio – di singolo un video amatoriale, messo in rete da qualche buontempone collega bancario, bensì di un contest ironico a fini di comunicazione interna. Prova ne sia, che spuntano on-line altri due video del medesimo tipo: il primo, girato nella filiale di Lissone di Intesa San Paolo, immagina la preparazione dei lavoratori alle Olimpiadi tra bizzarre discipline come il “sollevamento di penne biro” e il “canottaggio sulla sedia dell’ufficio”, con “Momenti di gloria” come base musicale; il secondo , invece, è una divertente parodia della canzone “Occidentali’s karma” di Francesco Gabbani, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo, in chiave “bancaria”, con ritornelli peraltro davvero spassosi.
A quel punto, Katia si trasforma rapidamente da zimbello a vittima: scatta il compatimento, e le prese di posizione di chi senza esitazione pubblica sulla propria bacheca di Facebook il cartello “Io sono Katia Gherardi”, puntando il dito su chi con inclemente cattiveria sghignazza senza sosta, seguite da esternazioni di opinionisti più o meno noti, a sostegno della povera e bistrattata dipendente di banca.
Devo confessare che per un istante – solo per un istante, assordato dalla confusione generale del dibattito – sono stato anche sfiorato da uno strano retrogusto in bocca, come un lontano rumore di fondo: e se tutto questo scenario fosse riconducibile a una raffinata e sofisticata operazione di digital marketing? Se non esistesse nessuna Katia Gherardi, o se fosse tutt’altro che un’inavveduta dipendente? Se anche la telefonata in Filiale fosse genialmente falsa? Troppo bello per essere vero, e infatti – stante l’assenza a posteriori di esplosione e spiegazione del “caso” da parte della Banca – pare sia stato tutto tristemente concreto e realistico, esattamente per come ve l’ho raccontato. Anche per questo ho voluto attendere per scriverne: volevo capire, vedere davvero la fine del tunnel, prima di trarre conclusioni.
Conclusioni, appunto, perché arriva – prima o poi – sempre il momento di tirare le fila. E ognuno l’ha fatto a modo proprio.
C’è chi ha scritto che la banca avrebbe dovuto dotarsi di una policy del tipo “Cari dipendenti, questi video sono per uso esclusivo interno, qualsiasi diffusione all’esterno verrà punita, ovvero vi facciamo un mazzo tanto se i video finiscono sui social”. Ben sappiamo invece quanto debole – inutile, anzi forse controproducente – possa essere una policy basata sulla paura, in relazione alla porosità dei Social e alla possibilità che qualunque dipendente possa comunque aggirarla con un click, pubblicando anonimamente qualunque video.
C’è chi ha protestato, come i Sindacati, scrivendo che “le immagini dei video richiamano alla memoria la saga di Fantozzi”, pronto a qualunque cosa per compiacere il “mega direttore galattico”.
C’è chi come l’azienda di onoranze funebri Taffo ha manifestato solidarietà, evidenziando come non sia esattamente una passeggiata realizzare un videoclip per chi di regia e riprese non è affatto esperto; chi  non ha perso occasione per cavalcare l’onda e dire la propria, come Ceres  – geniali come sempre – che se n’é uscita con un preciso e ficcante “A cantare al bar son bravi tutti, provate voi a farlo in banca”; e chi, come Unieuro, ha solidarizzato con Katia al grido di “Io ci sto”, ma soprattutto ha ironizzato su Fabio, il collega della Ghirardi che per non dover essere coinvolto nel video si è combinazione dato per malato proprio quel giorno, con tanto di certificato medico.

 
 
C’è infine chi ha suggerito che la banca avrebbe dovuto presiedere personalmente l’iniziativa, al fine di garantire risultati diversi, e decisamente migliori, con meno torte, meno canzoncine e un filo di professionalità in più, che è quello che ci si aspetta da un ambiente tendenzialmente asettico come quello di una banca”. Ma allora che contest sarebbe stato?
C’è anche chi – tra i competitor diretti di Intesa San Paolo – ha riflettuto con attenzione e ponderatezza sull’accaduto. Sono incidentalmente venuto a conoscenza che un manager di una banca concorrente, assai attenta alla reputazione, ha indirizzato a tutto il proprio top management una email di intelligente e dettagliata analisi sul caso, concludendo con questa frase: “Ritengo che l’esperienza che sta vivendo uno dei nostri principali competitor possa esserci d’aiuto per approfondire la riflessione su alcuni aspetti della nostra strategia di comunicazione. Con una domanda di fondo: e se domani capitasse a noi…?”
E la banca coinvolta, Intesa San Paolo, nel frattempo, cos’ha fatto…? Pare che inizialmente si sia limitata a confermare all’Huffington Post che il grottesco video in questione “era destinato a un contest interno, e non si spiega come e soprattutto chi sia stato a farlo circolare su internet”. Bontà loro, che neppure sanno chi comunica e verso chi, all’interno della loro stessa banca.
Che fosse un contest è peraltro chiaro, risulta senza equivoci dal “bando” lanciato dalla comunicazione interna di Intesa San Paolo.

 
Solo 3 giorni dopo lo scoppio del caso, il CCO di Intesa interviene in una trasmissione radiofonica su RAI Radio 1, ma al netto dell’incomprensibile ritardo – 3 giorni! – le giustificazioni paiono comunque “deboli”: “qualcuno ha trovato i video e li ha pubblicati su Facebook, non siamo stati noi” (sic!), nonché “La vita è fatta di eventi incontrollabili, gli esseri umani sono imprecisi e fallibili per definizione”, quasi a voler “scaricare”, con un’alzata di spalle lievemente altezzosa, la responsabilità dell’epic fail totalmente sugli impiegati della banca stessa.
É vero: come ha osservato qualche commentatore, quando vuoi che qualcosa diventi virale, puntualmente ciò non accade, anche se in linea di principio lo meriterebbe; mentre ciò che mai e poi mai vorresti diventasse virale, magari sfugge di mano e lo diventa. Parafrasando Richard Brooks, “É internet, bellezza, e tu non ci puoi fare niente! Niente!”
Ma è davvero cosi…?
Stupisce in effetti che un colosso come San Paolo Intesa possa – nel 2017 – ignorare o sottostimare i fondamentali del crisis management, a conferma di ciò che sostengo da sempre: la dimensione, non è di per se garanzia di adeguata cultura d’azienda.
Come ha scritto uno straordinario accademico, Elio Borgonovi, nel manuale de Il Sole 24 Ore sulla comunicazione in situazioni di crisi, “Una corretta gestione delle situazioni di crisi reputazionali diventa uno strumento fondamentale per evitare che l’impegno, la professionalità e la dedizione che manager e altri collaboratori hanno profuso per anni possano essere vanificati o messi in discussione a causa di una crisi mal gestita”.
É impossibile riassumere centinaia e centinaia di pagine sulle buone prassi in comunicazione in un articolo divulgativo come questo, ma volendo almeno tentare di evidenziare alcuni errori da parte del colosso bancario, segnalerei, non necessariamente in ordine di importanza, questo “decalogo”:

  1. scarsa o nulla simulazione preventiva di scenario;
  2. brief ai dipendenti del tutto inadeguato;
  3. operazione “al risparmio”, senza alcun presidio tecnico sul territorio in occasione della realizzazione dei video e/o senza alcuna indicazione atta a garantire un livello minimo di qualità dei contributi video;
  4. nessun disclaimer pubblicato on-line per il grande pubblico, al fine di “prevenire” la marea montante delle critiche, illustrando nel dettaglio l’operazione prima ancora che essa partisse;
  5. nessun monitoraggio efficace del web, quando sono scoppiate le polemiche, oppure monitoraggio efficace ma evidente incapacità di cogliere i segnali deboli (sempre meno deboli, invero) di crisi;
  6. atteggiamento ottuso e comunque incurante delle regole base del reputation management, del tipo “…tanto passerà presto”, mixato con atteggiamento vagamente supponente del tipo “…perché vi agitate tanto”;
  7. nessuna presa di posizione ufficiale della banca in tempi accettabili (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 1)
  8. nessun tentativo di “governare” efficacemente la comunicazione (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 6), sia off-line che on-line, nonostante la rassegna stampa negativa assai copiosa;
  9. atteggiamento di supporto emotivo ai dipendenti coinvolti nel epic fail decisamente troppo debole;
  10. a tre settimane dall’accaduto, e questo è forse ciò che più stupisce, nessuna azione di recovery.

É vero, come qualcuno ha osservato, in occasione di episodi come questo immancabilmente “entro poco tempo ci sarà altro a cui pensare, su internet, e altro contro cui indignarsi”. Sacrosanto. Ma altro che pesci rossi: gli algoritmi del web hanno una memoria da elefante, lapidaria, e questa vicenda – oltre che essere già diventata con rapidità degna di miglior causa un caso di studio in diversi Master e corsi Universitari – resterà lì, per sempre, online, a testimoniare l’inadeguatezza di una grande banca, Intesa San Paolo, a gestire un problema di immagine e di reputazione non solo proprio, ma anche di propri fedeli e dedicati collaboratori.
Eccola, la banca, la protagonista: capace di prevedere l’andamento degli investimenti, e più in generale gli scenari futuri, fatta di persone, che ha a cuore il territorio, attenta al benessere dei propri dipendenti come dei propri correntisti, e soprattutto rassicurante, fatta di rituali dove nulla accade a caso.
O forse no?
 

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