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Il ruolo della donna nella comunicazione pubblicitaria in Arabia Saudita

È trascorso poco più di un mese dal 25 novembre, Giornata Internazionale ONU contro la violenza sulle donne, quando la Lega della Serie A di calcio aveva invitato i calciatori a scendere in campo con un segno rosso sulla faccia e il Presidente della Lega Gaetano Micciché aveva dichiarato: “Il mondo del calcio deve sensibilizzare contro questi fenomeni, perché può avere un ruolo molto rilevante nel dare il suo contributo”, e – peraltro – solo 3 mesi dal giorno in cui Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post e in passato critico verso il regime di Riad, si era recato nel consolato Saudita di Istanbul per completare alcune pratiche burocratiche, uscendone morto e tagliato a pezzetti, e l’Arabia Saudita entra nuovamente nell’occhio del ciclone – con inevitabili polemiche online e i Social scatenati – a causa della decisione della Lega di giocare la Super Coppa italiana in un paese che, notoriamente, nega vari basilari diritti alle donne.
Che l’Arabia Saudita – alleato fondamentale degli USA e importante acquirente di armi anche dall’Italia, nonché principale protagonista, con l’Iran, della guerra per procura in corso in Yemen, dall’inizio della quale più di 85.000 bambini sono morti di stenti – presentasse ampi “spazi di miglioramento” sul fronte dei diritti umani, non è certamente una novità, come anche cosa nota da tempo è che, paradossalmente, a presiedere il Comitato consultivo del Consiglio ONU dei Diritti Umani sieda proprio Faisal bin Hassan Thad, Ambasciatore dell’Arabia Saudita alle Nazioni Unite: ma in Italia ci si sveglia sempre e solo quando di mezzo c’è una partita di calcio, per riaddormentarsi poi immediatamente dopo lo scoccare del 90° minuto.
In ogni caso, la decisione di giocare la Supercoppa di Lega nel regno arabo ha suscitato numerose polemiche, in quanto la maggior parte dello stadio King Abdullah Sports City Stadium sarà riservato agli uomini, e le donne – secondo quanto riportato dai principali mass-media mainstream – saranno confinate in pochi settori secondari.
In Arabia Saudita alle donne sono da sempre preclusi alcuni basilari diritti umani: la testimonianza offerta da una donna in Tribunale vale la metà di quella dell’uomo (!), le donne non possono viaggiare liberamente, o sottoporsi a un’operazione chirurgica, senza l’approvazione di un parente maschio, e solo da pochi mesi possono prendere la patente; in occasione della partita tra Juventus e Milan, che si giocherà il 16 gennaio nella città di Gedda, i biglietti riservati alle donne saranno un’esigua minoranza, e comunque potranno assistere all’incontro solo da settori periferici del King Abdullah Sports City Stadium. Qualcuno alla Lega sottolinea come si tratti in fondo “di un passo avanti”, in quanto se non altro è la prima volta nella quale le donne saudite allo stadio potranno entrarci: anche per i sauditi pare quindi esserci la speranza, prima o poi, di vedere la fine del tunnel e uscire dal medioevo teocratico.
Allargando il focus, qual è la rappresentazione che viene data della donna nelle case dei Sauditi? Ne ha scritto in un recente articolo il quotidiano liberal tedesco Suddeutsche Zeitung, riportando il testo di uno spot molto diffuso in TV a Riad e dintorni: “Tutte le cose finiscono, tranne l’amore per la famiglia e per il tuo bucato”. E giù con la donna che afferra il cesto e corre in bagno per lavare “la quantità infinita di panni sporchi”, ma con gioia, ovviamente, al servizio del benessere dei figli e soprattutto del marito. Pulire, cucinare, spolverare, cambiare i pannolini, e attendere fremente il rientro a casa del consorte che porta i soldi a casa, e – mi raccomando – sempre con il sorriso sulle labbra: uno spot del genere, andato in onda nel non lontano 2017 per pubblicizzare il detersivo Persil della multinazionale tedesca Henkel, era tipico anche da noi negli anni ’50, e forse anche più recentemente, ma dà l’esatta misura del gap culturale che separa attualmente i due mondi. E non si tratta certamente di un’eccezione, ma anzi, della regola. La nordica e modernissima Ikea, ad esempio, ha rimosso “per rispetto” – o forse per evitare polemiche – tutte le figure femminili dal proprio catalogo per l’Arabia Saudita, mentre nella pubblicità del detersivo Tide della Procter&Gamble, diffuso nel mondo arabo a fine 2016, la madre redarguisce la figlia al grido di: “Non crederai di trovare marito se non sai usare la lavatrice!”, trascinandola contro la sua volontà in bagno per illustrarle l’arte del bucato e i benefici dell’uso del detersivo americano.
Interpellati dal quotidiano tedesco, i responsabili dei vari marchi hanno rilasciato dichiarazioni tra lo sconcertante e il desolante: “Ovviamente nelle nostre iniziative pubblicitarie rispettiamo le tradizioni e la cultura di ogni paese, e d’altra parte le pubblicità non hanno certamente il compito di cambiare la società”, ha dichiarato Elke Schumacher, responsabile comunicazione della Henkel. Peccato, avrà pensato la Schumacher, non essere riusciti a realizzare quello spot sulle lamette per rasoi per la zona del Mali e del Centro Africa, ambientata nella casa dove la madre costringe la figlia urlante alla mutilazione rituale del clitoride: sarebbe stato così tipico e rispettoso delle tradizioni locali! Fatma Abd al Salam, regista e blogger egiziana, madre e moglie, si irrita dinnanzi a questi spot: “Anche i marchi occidentali diffondono nel mondo arabo messaggi misogini, con le donne impegnate solo a soddisfare i bisogni degli altri, invece che dare un’immagine più neutrale e utile per stimolare piccoli cambiamenti, mostrando ad esempio un bambino, maschio, intento ad aiutare la madre a fare il bucato”, immagine che – al netto dei minus habens che squittiscono di continuo urlando al “complotto gender”dovrebbe essere del tutto sdoganata in occidente.
Circa l’opportunismo e schizofrenia delle multinazionali occidentali, bravissime nella redazione di bilanci sociali patinati che difettano sistematicamente dell’essenziale requisito dell’autenticità, avevo già scritto, ma sconcerta il doppiopesismo di aziende che pur aderendo alle linee guida dell’Advertising Standards Authority (“Gli stereotipi di genere andrebbero rimossi in quanto limitano la percezione di se e le possibilità di scelta”) finiscono poi per puntualmente violarli per interessi meramente commerciali.
Considerata l’influenza profonda della pubblicità sull’inconscio delle persone, è proprio così vero che le aziende non devono dare alcun contributo al cambiamento della società, in barba alle tanto decantate policy di responsabilità sociale d’impresa?  Chiunque abbia accesso ai mass media contribuisce di fatto a forgiare la società”, dichiara a tal proposito Massimo Guastini, pubblicitario esperto e Direttore Creativo di Cookies & Partners. “Marketer e pubblicitari sono, nel bene e nel male, operatori culturali a tutti gli effetti, in quanto la comunicazione commerciale diffonde modi di essere, linguaggi, metafore e gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo, orientando opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani degli individui. Che la pubblicità non abbia il compito di cambiare la società è quindi una falsa questione: il tema davvero centrale è che la pubblicità non deve rappresentare una specifica forma di ‘inquinamento cognitivo’, e non deve consolidare stereotipi e pregiudizi arcaici che contribuiscano a mantenere disparità e discriminazioni anticostituzionali, punto di vista che trova conforto anche nella ricerca ‘Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia’”.
Qualcuno sui Social ha poi preso la parola dicendo: “Chi siamo noi per dare lezioni, quando in occidente nella maggior parte dei casi una donna in pubblicità vale in base alla quantità di centimetri di nudo che mette in mostra?”. Vero, tanto che siamo il paese nel quale il Presidente di “Pubblicità Progresso”, Alberto Contri, può affibbiare serenamente online a due professionisti della televisione, omosessuali nel loro privato, l’appellativo di “spregevoli checche”, ed essere ancora comodamente seduto al proprio posto. Con qualche lodevole eccezione, in definitiva, dal punto di vista dei diritti la gara a chi fa peggio, in pubblicità, pare quindi essere sempre aperta.

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